Alita(g)lia

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24 Giugno 2019

Speravo sinceramente che, passate le elezioni europee, il governo cercasse, almeno per un po’ e prima dell’inizio delle prossime tornate elettorali, di mettere mano ad alcuni dei dossier economicamente più scottanti: tra questi quello dell’Alitalia che, come tutti sappiamo si trascina ormai, a spese dei contribuenti, da svariati anni.

Gli studi che descrivono i fallimenti dell’intervento dello Stato italiano nel settore sono innumerevoli. Per meglio inquadrare il problema, vorrei qui ricordare solo due testimonianze che, a mio avviso, ben riassumono le logiche perverse dell’intervento scomposto della politica nella storia di Alitalia: quello di Carlo Valdes (Osservatorio CPI Università cattolica di Milano, Dicembre 2018) e quello di Carlo Festa sul suo blog del Il Sole 24 Ore (16 febbraio  2019). Alcuni dei dati riportati sono davvero impressionanti: Oneri Lordi per lo Stato (ovvero per noi contribuenti) nel periodo 1974 – 2017 10.6 miliardi di € (a valori 2017) passando per tre diverse procedure di Amministrazione Straordinaria (credo sia un record assoluto), a cui si devono ora aggiungere gli ultimi € 900 milioni per il prestito ponte che l’attuale governo pare deciso, pur di non lasciare il libero mercato fare finalmente il suo corso, a convertire in capitale. Nel periodo 1974 – 2016 le perdite nette prodotte dalla “Compagnia di bandiera” – anche se in teoria dal 2008 in mano ai privati – arrivano alla non disprezzabile cifra di oltre 9 miliardi di €.  Ma un ulteriore dato riportato dallo studio di Valdes è particolarmente interessante: quali sono le compagnie aeree dove lo stato ha ancora una percentuale azionaria rilevante? Secondo i dati ICAO (2016) sono le seguenti: KLM (Olanda) con il 5.91%, Air France (18%) Austrian Airlines (39.7%) TAP (Portogallo) con il 50% ed Air China con il 53.1%.  Tutti gli altri principali vettori – che in questi anni hanno macinato utili e non perdite – non hanno più lo stato nel proprio azionariato!

Ora cerchiamo di astrarci per un attimo dalle semplici considerazioni politico/finanziarie – comunque non irrilevanti, soprattutto in un periodo di “vacche magre” quale quello che attende il nostro paese – e guardiamo alla realtà industriale del settore. Il mondo dei cosiddetti voli point to point in Europa è ormai da anni in mano alle compagnie Low Cost (Easyjet e Ryanair solo per citare le più conosciute) che si distinguono dalle linee aeree tradizionali per tempi di turn around degli aerei a terra inferiori ai 30 minuti – cosa che permette alla compagnia di far volare gli aerei di più nell’arco delle 24 ore e quindi di sfruttare meglio e di più i propri asset –  nessun servizio aggiuntivo che non sia a pagamento, costi operativi bassissimi (ad esempio Ryaniar non utilzza i fingers degli aeroporti, ma fa scendere i passeggeri dagli aerei e li fa spesso camminare fino all’aerostazione) e, non da ultimo, una produttività del personale allineata a quella degli asset (elevata) ed un costo del lavoro ridotto all’osso con condizioni contrattuali che vengono spesso definite, soprattutto dai sindacati e dai colleghi delle compagnie tradizionali, a limite dell’accettabile. Il settore in cui le grandi compagnie tradizionali riescono ancora a guadagnare è quello dei voli a lungo raggio. Segmento in cui, peraltro negli ultimi mesi si stanno affacciando -non sono sicuro se con successo ma è un elemento da non sottovalutare nel medio periodo – anche alcune compagnie low cost quali Norwegian. Il mondo del lungo raggio, almeno per il momento, utilizza un modello di business completamente diverso ed in cui la clientela business rappresenta una quota delle vendite molto significativa e dove solo recentemente la clientela ha mostrato una certa elasticità al prezzo tanto che, diverse compagnie aeree, sono state obbligate ad inventare una nuova classe di viaggio, la premium economy che, con un costo minore ed a fronte di una offerta di servizi sostanzialmente inferiore a quelli offerti in First o Business Class, permette ai clienti meno propensi a spendere migliaia di euro per un biglietto, di avere comunque uno spazio accettabile per sedersi ed un servizio sufficiente ad evitare di soffrire sete e fame in un viaggio di svariate ore. Come ritengono alcuni esperti, Alitalia è intrappolata nel mezzo di questo dilemma: ha un network di voli tipicamente di corto e medio raggio – le rotte intercontinentali sono molto poche rispetto alle compagnie principali, essenzialmente a causa della mancanza di investimenti in aeromobili adatti ai voli lunghi dove può dunque offrire poche destinazioni e con frequenze sporadiche e non soddisfacenti per i viaggiatori con capacità di spesa, quali quelli della clientela business – ma ha una struttura di costi simile se non peggiore a quella dei vettori che sono presenti nel lungo raggio (e qui la politica oltre che un managemente comunque sensibile ai richiami politici) hanno certamente responsabilità non indifferenti). Pare dunque evidente che Alitalia, così com’è, rappresenti un problema irrisolvibile e che la sua eventuale sopravvivenza passi, inevitabilmente, per due scelte alternative, entrambe apparentemente sgradite a politici, sindacati e dipendenti: o si trasforma Alitalia in una low cost (vedi offerta, poi ritirata, di Easy Jet) – il che significa modificare radicalmente la struttura dei costi a cominciare dal modello di business e dal numero e dal costo del personale, o si trovano i soldi per investire nel lungo raggio cosa necessaria a comprare/prendere in leasing decine e decine di aeromobili con costi unitari elevatissimi e di difficile sostenibilità in assenza di un capitale forte e duraturo (modello in cui brillano, pur in assenza di un mercato domestico rilevante, Emirates e Singapore Airlines). Ebbene, pur di non scontentare una lobby ,e soprattutto una base elettorale importante soprattutto in zona romana, che facciamo in Italia? Rifiutiamo sdegnati l’unica offerta industrialmente seria (quella di Lufthansa) – dopo che a suo tempo Berlusconi, sempre per motivi elettorali, ci fece perdere quella di Air France/KLM. Lufthansa propone, come ha già fatto con la acquisizione di Swissair, il rilancio di Alitalia come feeder del network tedesco, associato ad una riduzione sostanziale del personale ed un efficientamento della spropositata struttura dei costi. Un’offerta che, seppur destinata ad asservire Alitalia al riempimento degli aerei tedeschi a lungo raggio, permetterebbe un futuro industrialmente accettabile alla compagnia Italiana, approfittando di economie di scala, disponibilità di una flotta adatta al lungo raggio, code sharing, etc. E noi invece estraiamo dal cilindro una serie di soluzioni fantasiose (o forse sarebbe meglio chiamarle farsesche) che, come unico risultato, potranno prolungare forse di qualche anno l’agonia di Alitalia e rendere più salato il conto per il contribuente italiano. Vediamole: l’entrata di Ferrovie dello Stato (sempre soldi di noi contribuenti) che diventa addirittura anchor investor in Alitalia come se il trasporto su rotaia seguisse le stesse logiche di quello aereo. Domanda semplice, semplice: quante sono le linee internazionali servite da FSI?Confesso di non saperlo ma secondo me sono meno di quelle delle dita di una mano. Non ci sono bastati i 100 milioni di Euro bruciati da Poste Italiane – ovvero sempre da noi contribuenti – nel 2014? In aggiunta, poiché, al fine di evitare le procedure europee per aiuti di Stato che scatterebbero con la maggioranza in mano pubblica, mancano comunque un po’ di milioni per completare la compagine sociale e non si trova nessun gonzo – di settore – disponibile a prestarsi al gioco politico elettorale del governo che passa per l’acquisto di Alitalia “tel quel”, ecco apparire di volta in volta una serie di partner privati alquanto curiosi: Carlo Toto che, come ben sappiamo, con la sua Airone, fu salvato dal fallimento proprio dall’Alitalia (e da Banca Intesa) nel 2014. Claudio Lotito, che, come presidente della Lazio, è un noto esperto del settore e che ha disponibilità finanziarie tali da permettere alla Alitalia di acquistare una trentina di Airbus 350 o di Boeing 787 dreamliners necessari a rendere Alitalia un serio competitor sui voli a lungo raggio. Oppure Atlantia, certamente finanziariamente molto più solida e gestionalmente più robusta, ma che fino a ieri è stata indicata, dallo stesso governo, come il male estremo del concessionario autostradale ma, soprattutto, controllante/operatore degli aeroporti di Roma dove Alitalia è uno dei clienti più importanti (e quindi con possibili conflitti di interessi che alcuni degli altri compagni di cordata – abituati ad un mercato internazionale – potrebbero non gradire). Da ultimo, Avianca, linea aerea Colombiana, quasi fallita qualche anno fa che, comunque, non essendo comunitaria, non potrebbe assumere la maggioranza del capitale, così come non lo può fare l’americana Delta – che in attesa di novità dai nostri governanti in relazione ad un misero 15% di partecipazione, ha investito in estremo oriente – e come non ha potuto fare Ethiad (che comunque ha si suoi problemi di network non indifferenti). Credo che ogni ulteriore commento sia del tutto superfluo e quindi termino con una speranza ed un’accorata preghiera all’attuale governo (così come a quelli che, nel caso, dovessero succedergli): per una volta cerchiamo di non inventare l’acqua calda e limitiamoci a prendere atto che, come in mille altri casi industriali in settori non protetti ma globali, il mercato è quello che detta la strada da seguire pena arrivare alla stessa conclusione ma dopo perso anni preziosi ed aver sperperato preziose risorse pubbliche, già molto scarse e che sarebbero molto meglio investite in altre iniziative (es. l’istruzione ma questo è un’altra storia) più importanti.

 

TAG: alitalia, Atlantia, Avianca, Carlo Toto, claudio lotito, compagnie aeree, crisi aziendali, europa, fallimenti di Stato, ferrovie dello stato, FSI, governo italiano, italia, low-cost, lungo raggio, mercato, Poste Italiane
CAT: trasporti (aerei, ferrovie, navi, bus)

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