Il presente che c’è. «Millenovecentottantaquattro» di Orwell, per esempio

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5 Febbraio 2021

A partire dal 1° gennaio 2021, essendo trascorsi 70 anni compiuti dalla morte, tutte le opere di George Orwell pubblicate in vita sono diventate di pubblico dominio. Questo spiega perché improvvisamente, pur non essendo mai stato dimenticato in questi anni, i suoi testi canonici (La fattoria degli animali, Omaggio alla Catalogna e, soprattutto, 1984) siano tornati massicciamente sui banchi delle librerie.

Per una strana coincidenza questa nuova fioritura di Orwell ci mette imperiosamente a un bivio nel tempo della scelta della pandemia: ovvero se restare nel nostro tempo presente o se provare a progettare futuro.

Forse proprio Orwell di 1984 può esserci di aiuto, a patto di non cercarvi delle certezze, bensì delle inquietudini. Questo è quello che ho provato a scrivere presentando una nuova edizione e traduzione di quel racconto morale.

1984, un testo che spesso è stato raffigurato come la condanna definitiva dell’utopia, ovvero un richiamo forte al tempo presente, a non abbandonarlo in cerca di altri sogni destinati a collocarci in una condizione di terrore e di totalitarismo assoluto.

Non sono convinto che quella sia l’interpretazione corretta. Comunque, non era la convinzione di Orwell, che aveva una preoccupazione opposta: temere che la delusione da utopia disattesa, generasse una fiducia cieca nella realtà quotidiana, perché meno deludente del pensare futuro.

Millenovecentottanquattro – scelgo di scrivere il titolo in lettere e non in cifre, rispettando la scelta di Orwell, è un testo «al tempo presente» non è la messa in guardia di pensare futuro. Anzi, più precusamente: è un testo che parla del nostro presente non di un futuro terribile che bisogna fare di tutto per evitare.

Leggiamo insieme queste righe.

“Il vero potere, quello per cui dobbiamo lottare giorno e notte, non è il potere sulle cose, ma quello sugli uomini.» S’interruppe, e per un attimo assunse di nuovo l’atteggiamento di un insegnante che interroga uno scolaro promettente. «Winston, come fa un uomo a esercitare il suo potere su un altro uomo?» Winston rifletté. «Facendolo soffrire.» «Esattamente. Facendolo soffrire. L’obbedienza non è abbastanza. Se non soffre, come puoi essere sicuro che obbedisca alla tua volontà, e non alla sua? Il potere sta nell’infliggere dolore e umiliazioni. […] Ci sarà sempre, in ogni momento, l’eccitazione della vittoria, la sensazione di schiacciare un nemico ridotto all’impotenza. Se vuoi farti un’immagine del futuro, pensa a uno stivale che calpesta il volto di un uomo – in eterno.» [pp.346-348]

Nel dialogo disvelativo tra O’Brien e Winston, quello che si potrebbe indicare come “il sugo della storia”, forse un tempo avremmo posto l’accento e l’attenzione sul potere più che sugli uomini concreti. Difficile dire se dopo il 25 maggio 2020 l’immagine non sia proprio su quel volto umano calpestato e se tutti quei nomi non siano uno solo: George Floyd (ma anche quelli di molti altri, in molti luoghi, che in questi ultimi tempi sono caduti alle Termopili della violenza).

In ogni caso quella scena se tradizionalmente è stata vissuta come una proiezione di un futuro possibile, oggi parla di un presente cui occorre rispondere. Perché d’accordo o meno con questa affermazione resta ineludibile la domanda: Cosa significava leggere questa frase prima del 25 maggio 2020? Cosa significa leggerla dopo quella data? Quale la funzione di scrivere, per far sì che la lettura sia un esercizio «generativo di domande», ovvero continui a conservare una «missione civile»?

Orwell, pur descrivendo un futuro che non ci piace, ci mette davanti a una realtà che ci riguarda, e con cui ci misuriamo “controvoglia”, come ha scritto il critico Enzensberger quando scrive che Orwell “non avrebbe mai pensato che alcuni di quegli obiettivi, soprattutto il controllo di tutti i cittadini, si potessero perseguire anche senza l’uso della, violenza; che a quello scopo non fosse necessaria una dittatura; che anche una democrazia fosse in grado di imporli in modo civile, se non addirittura pacifico”. Forse anche per questo, Millenovecentottantaquattro è un libro che ha resistito nel tempo, comunque che è andato anche molto oltre il suo tempo, e ha accompagnato l’immaginario, ma anche i timori o, forse meglio, le ansie, dei suoi lettori sino a costringerci a collocare il nostro presente nel suo solco.

Siamo nel 2021 e ancora riusciamo a pensare questo testo (esito a chiamarlo racconto o romanzo) come qualcosa che parli di un tempo che non verrà (e che il superamento della data rende obsoleto) o che sta comunque alle “nostre spalle”, come ben intuiva Umberto Eco nelle pagine che dedica alla ristampa di questo testo proprio alle soglie dell’anno 1984 (un po’ per fare un bilancio, un po’, forse, per fare uno “spergiuro”).

Umberto Eco insisteva su questo fatto: Millenonvenottantaquattro non descrive un’ipotesi di futuro, ma parla di presente. Ciò che fa Orwell, precisa Eco “non è tanto di inventare un futuro possibile ma incredibile, quanto di lavorare di collage su un passato credibilissimo perché è già stato possibile”.

Prima questione, dunque quello che noi vediamo emergere dalle pagine di Millenonvenottantaquattro è una sovrapposizione di elementi che hanno attraversato i due diversi totalitarismi realizzati e compiuti al momento in cui Orwell scrive.

Ovvero: ci sono le scene che alludono al sistema sovietico che peraltro Orwell non è il primo a descrivere. Prima di lui tanto Arthur Koestler in Buio a Mezzogiorno nel 1940, quanto Victor Serge sia nel suo 16 fucilati a Mosca, che pubblica nel 1936 sia ne Il caso Toulaev, pubblicato, nel 1948 mentre Orwell sta lavorando alla seconda stesura, lo hanno già descritto ampiamente.

Ma non ci sono solo quelle. Ci sono quelle dello scenario nazista. Ne indico quattro:

(1) la pedagogia dell’odio; il razzismo che distingue i membri del partito dalle masse;

(2) i bambini usati per controllare i genitori (un meccanismo che è tornato nei nostri tempi nei territori del “Califfato” ISIS; e che Michelle Houllebecq sintetizza in Sottomissione nella voce dell’agente dei servizi segreti: “chi controlla i bambini, controlla il futuro”);

(3) il puritanesimo che connota l’idea di razza eletta;

(4) la pratica sessuale come atto legittimo purché finalizzato a produrre “miliziani”, ovvero volto  al mantenimento nel tempo della razza.

Mi chiedo: vale solo nei territori delle nuove forme di totalitarismo o, in altra forma, talvolta con un linguaggio attento a non ricalcare il gergo di quelle esperienze, tanto del passato prossimo, come del presente, quelle regole sono tornate a dare forma al nostro comportamento? O la questione risiede nella «disponibilità» ad accogliere le regole?

Propendo per la seconda ipotesi. Non c’è un’innocenza nei sistemi totalitari. Quei sistemi, a differenza degli autoritarismi o degli assolutismi, vivono non solo del coinvolgimento, ma della partecipazione attiva dei loro amministrati.

L’esperienza totalitaria, dunque, non è la vacanza della ragione. È la spia di una domanda di semplificazione sociale e culturale a fronte di una complessificazione delle società contemporanee.

Due i pilastri su cui si tiene: da una parte una dimensione religiosa del vissuto politico; dall’altra una versione vittimizzata della storia.

Sono questi due connotati a definire il concetto di totalitarismo: da una parte, la configurazione dell’ordine gerarchico in quanto salvezza per cui apparentemente la esperienza totalitaria tende ad assimilarsi ad una dimensione religiosa attraverso l’affidamento di sé al capo supremo assunto come redentore. Dall’altra, la fondatezza della gerarchia totalitaria come domanda di sicurezza, come espressione di una mentalità che trova nella forma del totalitarismo una risposta.

Per questo se  il totalitarismo appare spess come un sistema coercitivo che comanda e che crea consenso esso si configura come l’esito di una richiesta, come un sistema desiderato. La mentalità totalitaria è un desiderio che preesiste al totalitarismo, non è un suo prodotto storico. Più precisamente: è la condizione per cui può prodursi il totalitarismo. Ovviamente è anche la condizione che ne consente la perpetuazione. In questo la sottomissione indica un desiderio di totalitarismo fondato sulla necessità della servitù come condizione di tranquillità che consente di raggiungere la felicità desiderata. A ben vedere non è quello che propone il “Grande Inquisitore” di Dostoevskij quando dice: “Non esiste preoccupazione più assillante e tormentosa per l’uomo rimasto libero, che cercare al più presto colui davanti al quale inchinarsi”.

Millenovecentottanquattro, dunque parla ancora a noi (e forse ancora più prepotentemente) parla di noi e la sua funzione è doppia: metterci in guardia su un futuro possibile, allo stesso tempo evocare precedenti. In questo senso, più che illustrarci una distopia (collocata in un futuro possibile), Millenovecentottanquattro si presenta come antiutopia.

L’utopia si presenta come la condizione di desiderio. Viceversa, il testo di Orwell, si presenta uno specchio oscuro dei nostri desideri e paure: propone una visione inquieta della perdita della nostra storia o, piuttosto, una visione della Storia come perdita irrecuperabile.

Se noi stiamo alla trama pura potremmo dire che Millenovecentottanquattro è una storia esemplare di rivolta sconfitta e di invincibilità del potere. Ovvero: di come questo si mantiene con inganno e astuzie (questo si potrebbe dire è proprio della vocazione di potere in qualsiasi esperienza storica, Machiavelli docet, senza possibilità di replica), ma soprattutto della nuova forma del potere quale si viene sperimentando nel tempo della sua scrittura. La questione è se quella dimensione ci riguardi ancora (e se sì in che forma) e quale sia la categoria capace di resisterle e di opporvisi efficacemente.

Chiediamoci: che cosa quel potere teme di più?  La risposta credo sia: il ragionamento, ovvero la definizione di un territorio del dialogo e del confronto. Per conseguire questo scopo, il potere deve costruire un’azione fondata su un doppio registro: creare paura e suscitare entusiasmo. Il potere deve essere desiderato nella sua potenza coercitiva nella convinzione di essere finalmente liberi.

Quale percorso consente che si definisca questo processo? Perché alla fine sottomettersi rende felici? Più precisamente: come avviene questo risultato? Ma anche che cosa si abbandona per strada e dunque come fa questo risultato a divenire non solo possibile, ma auspicabile, desiderabile? Qual è il presupposto che rende desiderabile la sottomissione?

Orwell alla fine ci dice che è il timore di rimanere soli a produrre il desiderio di sottomettersi, ovvero di omologarsi. E l’omologazione è prima di tutto il ticket d’ingresso. Per obliterarlo, preliminarmente, occorre smettere di pensare. Diversamente, la conseguenza è la «messa al bando».

È ciò che Orwell non ha temuto. Ed è per questo che Millenovecentottanquattro parla al e del nostro tempo.

TAG: Arthur Koestler, chiarelettere, Fedor Dostoevskij, George Floyd, George Orwell, Hans Magnus Enzensberger, Michelle Houllebecq, Millenovecentottantaquattro, Umberto Eco, Victor Serge
CAT: Letteratura

Un commento

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  1. sonia13.zuin 3 anni fa

    Molto interessante il tuo articolo e ricco di spunti di riflessione, David. Ho letto 1984 parecchi anni fa e ammetto di avere un ricordo annebbiato dal tempo. Ricordo però che non l’ho percepito come un romanzo che parlava di un possibile futuro da cui tenersi lontano, ma di una realtà concreta di allora e, purtroppo, dei giorni nostri.
    Riguardo al totalitarismo e al desiderio di sottomissione, Dostoevskij è stato indubbiamente un genio e quella frase ne è l’ennesima riprova. Non dobbiamo dimenticarci che la libertà, intesa ovviamente come libertà di pensiero, è una condizione di vita che costa molta fatica: richiede attitudine alla riflessione, all’analisi, alla critica e all’autocritica. Può avere spiacevoli conseguenze come quella di sentirsi soli nel difendere le proprie idee. Penso che sia anche per questi motivi che la sottomissione culturale eserciti sulle persone un grande fascino, ovviamente inconscio perché nessuno ama riconoscersi nella parte della pecora che segue docilmente il gregge.

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