Mio papà e le grandi praterie del West
Per molti anni mi sono chiesto perché mio padre amasse tanto i film western. Io li ho sempre trovati noiosi, fin troppo semplici nella struttura, e sono vissuto in un’epoca in cui sapevamo già che i pellirossa fossero i buoni e le giacche blu i cattivi. Finché una notte di veglia, ormai sopra i 60, mi è capitato di vedere “Cavalcarono insieme” (Two rode together), un vecchio film di John Ford con James Stewart e Richard Widmark. Seguendolo, mi sono accorto di averlo già visto, mille anni prima, insieme al mio papà. E questo ha creato, in me, una sorta di miracolo.
Oramai conosco e capisco molte cose di papà – o, comunque, mi illudo di farlo. Ora che invecchio, leggo le sue frasi, i suoi comportamenti, la sua storia, in un modo parallelo alla mia, con un affetto paragonabile a quello che provo per i miei fratelli minori, ma con l’aggiunta di sapere che anche lui, come me, è sopravvissuto all’epoca cui apparteneva. Un’epoca in cui Dick Fulmine era il grande eroe, ed i fumetti di Sergio Tofano la critica morale di un proletariato che si era promesso di divenire, a qualsiasi costo, borghesia.
Un cammino iniziato nella povertà e nelle macerie di una Roma affamata dalla guerra, travolta dal bombardamento di San Lorenzo (la casa di nonno venne colpita e spaccata a metà), umiliata come sono tutti i popoli perdenti. Ho amato i film del neorealismo, perché mi ricordano il mio primo papà e la mia prima mamma: in bianco e nero, pieni di entusiasmo, con gli occhiali a triangolo di fine anni 50, le giacche a quadri e l’apetto a tre ruote.
Mentre il film scorreva, il mio cuore si è raggricciato al ricordo del più bel viaggio che io abbia mai fatto, da Gauteng (Johannesburg) fino a Wolvis Bay e poi Windhoek, la capitale della Namibia. Un viaggio su un camion immenso durato una settimana, cavalcando sul confine, tra savana e deserto, avvolto in quei profumi gonfi e dolciastri che solo l’Africa possiede. Ricordo delle notti passate col sacco a pelo sul camion, davanti a me un cielo stellato di una bellezza e ricchezza incomparabile, a centinaia di chilometri da qualsiasi città.
Poi l’alba, un miracolo che rende a ciascuno la fiducia in Dio. Dapprima una lama di luce nel profondo nero, e violetto sulle pietre del deserto, e porpora, rosso, arancione, mentre il cielo diventa uno smeraldo ed il calore solleva la polvere e gli insetti. La mia nostalgia per quelle notti è così struggente proprio perché non tornerà mai più – e del resto non appartengo a quel mondo, ero un ospite scomodo di una missione delle Nazioni Unite, pagato da una ONG inglese. Quando, in una pausa di pranzo, in lontananza ho notato delle macchie gialle in movimento, ho chiesto ai miei compagni di viaggio cosa fosse mai. Leoni, mi hanno detto. Hanno mangiato, dormono, sono tranquilli. Ma io mi sono nascosto nella cabina del camion, travolto dalla paura. Uno sciocco imbucato nell’Eden africano. Stupefatto, spesso, come quando, una sera, incontrammo un gruppo di Herero che, a piedi, una volta finita la stagione della raccolta agricola sulla costa, tornava a casa al piccolo trotto: circa 700 km a piedi.
Sulla Wolvis Bay ed i milioni di fenicotteri ed otarie della più bella spiaggia del mondo non dirò nulla, perché non ci sono parole. Ed eccomi nuovamente al film di John Ford ed al mio papà. Nel film scorrono le immagini di praterie infinite, di semplice ed avventurosa vita da pionieri, di storie d’amore semplici e tenaci più della vita stessa, ed ho capito: ecco cosa vede papà, quando guarda questi film: lo spazio infinito e le certezze solide – ciò che non avrebbe mai avuto, visto che ha passato la vita combattendo, spinto da una forza, che è anche stata la mia, da un karma inestinguibile come dopo la traversata di quelle praterie, senza acqua per l’anima, inseguendo tramonti stupendi e spergiuri, sogni che non si sarebbero mai realizzati.
In quei momenti vorrei averlo tra le braccia, il mio papà, la parte bambina che ha conservato fin oltre ai 90 anni che ha oggi, e tenergli una mano sulla fronte, umida dell’acqua della speranza, e non del sudore della fatica. E penso all’Africa lontana, a quel miracolo che un’umanità sozza e volgare continua con pervicacia a voler distruggere – mentre il film western finisce in gloria, i buoni vincono, la natura rimane invitta, ed il cuore è pronto ad accogliere il sonno.
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