Come possiamo difenderci dalle frodi sull’olio extravergine di oliva

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11 Novembre 2015

L’olio extravergine di oliva, prodotto molto apprezzato dagli italiani e non solo, è fra i prodotti più a rischio di contraffazione. Oli di dubbia provenienza non idonei a fregiarsi del titolo di “extravergine”, vengono miscelati con oli non di oliva o trattati mediante processi industriali in grado di de-acidificare, de-odorare e altre sofisticazioni, come l’aggiunta di clorofilla, che conferisce all’olio un colore verde più all’apparenza genuino.

In casi meno eclatanti, e che i palati non esperti difficilmente distinguono, oli di categoria inferiore, come il “vergine” vengono venduti come “olio extravergine”. Quest’ultimo sembra essere il caso che Raffaele Guariniello, pm della procura di Torino, sta affrontando dopo aver ricevuto una segnalazione da una rivista di tutela dei consumatori, “il Test”. Secondo questa rivista, ben 9 delle 20 bottiglie analizzate «dal laboratorio chimico di Roma dell’Agenzia delle Dogane sono state declassate dal comitato di assaggio a semplici oli di oliva vergine», il cosiddetto “categoria 2”. Su ordine di Guariniello, gli accertamenti sono stati ripetutati dai carabinieri dei NAS, che hanno prelevato presso i supermercato di Torino campioni di note marche di oli d’oliva (Carapelli, Santa Sabina, Bertolli, Coricelli, Sasso, Primadonna, Antica Badia), tutti prodotti in Toscana, Abruzzi e Liguria. I rappresentanti delle società coinvolte sono ora indagati per frode in commercio, mentre si cerca di capire la provenienza delle olive.

L’olio extravergine di oliva (“EVO”) ha caratteristiche chimiche ed organolettiche (sapore, odore, colore, etc.), che devono essere rispettate, pena il declassamento. Nello specifico, l’olio EVO deve avere un acidità inferiore a 0,8g/litro espressa in acido oleico libero, numero di perossidi inferiore a 20mg meq/O2/Kg ed essere privo di difetti organolettici (morchia, avvinato, rancido, ecc).

In media l’Italia produce circa 350mila tonnellate di olio all’anno, mentre il consumo italiano si attesta attorno alle 600mila tonnellate, circa il doppio. «Questo deficit, rispetto al fabbisogno interno, viene ulteriormente allargato dal fatto che 400mila tonnellate sono esportate dalle imprese italiane», spiega Giovanni Zucchi, il presidente di Assitol, l’associazione dell’industria olearia italiana, aderente a Confindustria. Gli Stati Uniti sono il maggior acquirente mondiale di prodotti imbottigliati in Italia: 118.176 tonnellate. A seguire troviamo la Germania, con 43.984 tonnellate (+0,3%), la Francia con 33.462 tonnellate (+28,8%) e il Canada con 26.214 tonnellate (+29,7%). In Asia, le esportazioni sono aumentate del 12 per cento. In particolare, il Giappone ha registrato un incremento di quasi il 6 per cento. A Taiwan, dopo la positiva risoluzione di alcune difficoltà con le autorità locali, lo scorso anno le vendite sono cresciute del 52 per cento. Come si fa per colmare il deficit di produzione? L’olio “mancante” viene importato principalmente dalla Spagna, Grecia e Tunisia. Tuttavia, il forte consumo interno e la sempre maggior richiesta all’estero di olio di marca italiana fanno sì che ci creino spazi per frodi alimentari o commerciali.

Dato il suo alto valore economico, l’olio d’oliva è soggetto a severa regolamentazione e alla valutazione di panel test. Marcello Scoccia, vice-presidente di ONAOO (prima scuola di assaggiatori di olio, con sede ad Imperia) ricorda che «dopo la pubblicazione del regolamento 2568/91 CEE, l’assaggio dell’olio è discriminante per la classificazione merceologica del prodotto, cosa unica nel suo genere perché neanche nel vino o in altri prodotti agroalimentari l’assaggio è fondamentale per stabilirne la qualità e quindi il nome in etichetta». Tutto ciò viene effettuato da un panel di assaggiatori professionisti. L’operazione non è obbligatoria per il produttore, sul quale però ricade la responsabilità in caso di controlli se etichetta il proprio olio come extravergine.

Qualcosa sta cambiando, nota Federolio, da quando «esiste un obbligo di tenuta del registro telematico SIAN (Sistema informativo agricolo nazionale) da parte di tutte le componenti della filiera (olivicoltori, frantoi, commercianti di olio sfuso, commercianti di olive e di sansa di olive, contoterzisti (qualora detengano oli destinati alla vendita, raffinerie, sansifici, confezionatori), dove è necessario tracciare origine, qualità, quantità, lavorazioni e movimentazioni, allo scopo di garantire trasparenza e chiarezza della filiera stessa. Sono soggette all’obbligo di tracciabilità le seguenti categorie di prodotti oleari: oli extravergine e vergine di oliva, l’olio lampante, l’olio di oliva raffinato, l’olio di oliva e gli oli di sansa di oliva».

Nonostante le carenze e le astuzie di certi confezionatori di olio, Massimo Occhinegro, consulente fiscale ed esperto del mondo oleario ci tiene molto a sottolineare i punti di forza, gli aspetti positivi e le potenzialità che possono far crescere l’olio di oliva italiano: «Rispetto agli altri Paesi, il consumatore italiano è più tutelato, ci sono molti controlli nella filiera, i prodotti sono di qualità, c’è una cultura secolare dell’olio. Purtroppo non riusciamo a valorizzare bene questo aspetto e a comunicarlo anche fuori, nell’export».

Un altro aspetto da migliorare è la comunicazione sostiene Marco Oreggia, esperto assaggiatore di olio, vino e curatore della guida Flos Olei sugli oli extravergini nel mondo: «Un vero olio extravergine italiano a 4 euro al litro, al supermercato, non può esistere per via dei costi di produzione – afferma – Viene volontariamente fatta anche una distorsione del mercato e del valore commerciale dell’olio». Ma c’è anche un tema importante di innovazione industriale, oltre che distributiva. «Ad esempio – continua Oreggia – sistemi di trasformazione a ciclo discontinuo, macine in pietra e fiscoli, seppur belli e caratteristici, non sono più adatti per una produzione di qualità perché la pasta delle olive subisce troppi stress ossidativi e ciò si riflette negativamente sulle caratteristiche organolettiche».

L’olio italiano per ora vive di rendita grazie alla fama del made in Italy, ma bisogna fare di più sia da parte delle istituzioni sia da parte dei produttori. La produzione è frammentata, ci sono guerre intestine tra produttori, frantoiani e grande distribuzione. Come fare quindi a migliorare? «Sarebbe opportuno lavorare per mettere insieme le forze, coalizzarsi, dare anche solo una piccola percentuale del guadagno e fare campagne di marketing e informazione sia in Italia che all’estero, proprio come fa la Spagna dove ogni attore della filiera contribuisce a far accrescere il made in Spain», conclude Occhinegro. Tanto più che, sulla falsariga di quanto accade nel settore vinicolo, molti paesi stranieri si stanno mettendo in scia dell’Italia e cercando un posizionamento anceh nella produzione di olio extravergine. In primis, California ma anche Australia e Sudafrica. In particolare, la prima ha investito nella piantumazione di milioni di piante in coltivazioni super-intensive e raccolte meccanizzate che aiutano ad abbattere i costi.

E le buone notizie? Nonostante le difficoltà, l’export aumenta e la qualità italiana è sempre più apprezzata, mentre aumenta l’attenzione alla salute ed al cibo che mangiamo. Di spazio per crescere ce n’è: l’olio di oliva rappresenta appena il 3-4% del consumo degli oli e grassi nel mondo.

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In copertina, Still-Life With Olives No.4, foto di Sergy, CC, tratta da Flickr

TAG: EVO, frode in commercio, frodi alimentari, Olio extravergine di oliva
CAT: Agricoltura

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