Se Trump perde, per noi non cambia (quasi) niente

3 Novembre 2020

Nell’estate 2016 feci un viaggio in macchina negli Stati Uniti del sud. All’epoca vivevo negli USA da tre anni e mezzo ma non mi ero mai mosso da New York, e come adesso c’erano le elezioni, Hillary Clinton contro Donald Trump.


Ad inizio agosto, a New Orleans, credevo che la candidatura di Trump fosse uno scherzo a cui nemmeno lo stesso Partito Repubblicano credeva e di cui anzi si vergognava: non avevo mai incontrato una singola persona che si dicesse convinta di votarlo o che almeno conoscesse un suo sostenitore.
Ma alla fine del mese, a Nashville, ero sicuro che Trump avrebbe vinto in scioltezza. Lungo la Blue Highway, l’autostrada del blues, ogni cento metri c’era un cartello, un lenzuolo, una bandiera con il suo nome. E la cosa ancora più straordinaria era che, parlando con le persone, tutti davano la vittoria di Trump come un fatto scontato, discutendo su cosa avrebbe dovuto fare una volta al potere.  Mi trovavo negli Stati più poveri dell’Unione: eppure il miliardario newyorkese, tra le paludi della Louisiana o fuori da sperduti bar ai piedi delle Smoky Mountains, dove il massimo che puoi fare il sabato sera è un torneo di braccio di ferro, era considerato una sorta di campione del popolo, come fosse uno di loro. Ne parlavano con un trasporto e un entusiasmo che non poteva essere paragonato all’appoggio critico e condizionato che la Clinton raccoglieva nei campus universitari o nei caffè hipster di Brooklyn  che ben conoscevo.

Quattro anni dopo la situazione è molto simile ma nello stesso tempo molto diversa.
A leggere i sondaggi e ogni mezzo di comunicazione disponibile la vittoria di Trump appare impossibile. Ma se il precedente del 2016 spinge qualcuno alla prudenza, è proprio dal confronto con quattro anni fa che si capisce come l’impresa, oggi, sia enormemente più complicata.
Quattro anni fa Trump se la vedeva con un personaggio controverso come Hillary Clinton, capace – proprio come Trump – di attirare su di se una quantità spropositata di odio, ma anche – al contrario di Trump – di dividere i suoi stessi elettori: ricordo che all’epoca i miei roommates, attivisti di Bernie Sanders alle primarie, subito dopo la nomination democratica dissero che loro, la Clinton, non l’avrebbero mai votata.
Quest’anno invece il rivale è Joe Biden ed è tutta un’altra storia: odiare Good Old Joe è praticamente impossibile, anche solo perché a sentirlo parlare ci si addormenta prima.
E poi è vero che i sondaggi di quattro anni fa si rivelarono completamente sbagliati, ma quello fu appunto un fallimento storico ed è difficile che gli avvenimenti storici si ripetano due volte di fila.
Per non parlare del contesto: quattro anni fa Trump rappresentava l’antipolitica, il candidato estraneo all’establishment che voleva bonificare la palude. Quattro anni dopo Trump è diventato completamente organico al partito Repubblicano, e quel fenomeno dei “vasi comunicanti” – gli elettori indipendenti o “non allineati” che magari avevano votato Sanders alle primarie democratiche ma che scelsero Trump perché ai loro occhi meno compromesso della Clinton – è praticamente impossibile che accada.
Ancora: con buona pace delle panzane sugli hacker russi ottime per vendere i libri, Trump vinse nel 2016 grazie al voto bianco della Rust Belt, gli Stati del centro-nord in crisi dagli anni ’80. Gente che nel 2008 e nel 2012 aveva votato convintamente per Obama – tanto che un altro modo per chiamarli e’ “Blue Wall”, cioè “Muro Blu” cioè “Muro Democratico” – e che, frustrata e depressa per il tracollo del proprio orizzonte esistenziale, si era buttata su Trump con lo stesso spirito di chi, perdendo le staffe durante una partita a biliardo, spari un colpo forte nel mucchio, sperando che accada qualcosa.
Quattro anni dopo, le condizioni di quel blocco sociale non sono migliorate, anzi il COVID ha sparso sale sulle ferite: e allora non si capisce davvero come si faccia a credere che il “Muro Blu” scommetta di nuovo sullo stesso cavallo.
Paradossalmente, l’unica ragione valida per credere a una vittoria di Trump è proprio perché i media mainstream la escludono a priori, e questo la dice lunga sul livello di credibilità raggiunto dal giornalismo moderno ad ogni latitudine. Del resto, questo sarà forse il principale lascito del Presidente uscente: l’aver dimostrato che i Venerabili Maestri del giornalismo anglosassone liberal sono in fondo degli Emili Fede più presentabili, con i loro interessi di bottega, i loro conflitti di interessi, le loro continue strumentalizzazioni finalizzate al mantenimento di piccole e grandi rendite di posizione, animati dalla stessa intolleranza che agita la loro controparte.

In ogni caso, dal punto di vista di un cittadino europeo qualunque, una vittoria di Biden non cambierà nulla.
I quattro anni di Trump alla Casa Bianca sono già stati i più irrilevanti del XXI secolo: a dispetto degli strepiti dei corrispondenti nostrani – ormai ridotti al ruolo di traduttori di lusso del New York Times – e delle loro continue profezie sulla tragedia incombente, quello che è accaduto sull’altra sponda dell’Atlantico non ha avuto per noi alcuna conseguenza.
Per gli americani, Trump ha voluto dire una politica fiscale completamente a vantaggio dei ricchi, una stretta persecutoria nei confronti dell’immigrazione legale, un’inquietante messa in discussione di diritti civili che ormai si davano per scontati, come il diritto all’aborto; noi ci siamo limitati a farci qualche risata con i suoi tweet, ricordandoci di quando erano gli americani a prenderci in giro per Berlusconi, e ad inorridire, piuttosto, per gli effetti di quel mostro liberticida chiamato “cancel culture”, con cui però Trump, e la parte politica che rappresenta, non ha nulla a che fare.
Tutt’altra cosa rispetto ai suoi predecessori, dal Bush guerrafondaio della Guerra in Iraq, all’Obama irresponsabile e maldestro delle Primavere Arabe o della gestione della crisi in Siria, che con le loro scelte spalancarono le porte al terrorismo – come abbiamo visto anche l’altra sera a Vienna – e gettarono le basi per quell’avanzata populista con cui dobbiamo fare i conti oggi.
Basta dare un’occhiata al pedigree di Biden per capire che la politica, non solo quella estera, resterà grosso modo la stessa, e che il vecchio Joe sarà più un onesto gondoliere che l’appassionato rivoluzionario che sogna gran parte dell’elettorato democratico, il cui baricentro, negli ultimi 4 anni, si è spostato decisamente a sinistra, forse come mai prima d’ora.
E a quel punto è quasi certo che il destino di Biden sarà quello del Carter del ’76, eletto nel mezzo di un decennio da incubo grazie alla mobilitazione della sinistra radicale e poi ripudiato dal suo stesso partito per un’agenda troppo centrista: del resto il mite Joe è in realtà l’autore di quella vergogna chiamata “1994 Crime Bill”, la legge responsabile dell’ingiusta incarcerazione a vita di centinaia di afro-americani, al centro del bellissimo documentario Netflix “13th”.
Pensare che sia lui l’Uomo del Destino, in grado di portare avanti l’agenda per cui gli Stati Uniti si sono mobilitati per tutta l’estate, dominata dall’hashtag #defoundthepolice, è stata probabilmente la follia più grande dell’anno più folle dell’Era Moderna.
Ma questi, di nuovo, sono discorsi che interessano chi negli Stati Uniti vive; per chi invece si limita a leggere di politica americana per avere un argomento di conversazione intelligente all’aperitivo, la vittoria di Biden significherà fondamentalmente che, di punto in bianco, saremo liberi di dire, davanti a uno spritz, quello che pensiamo da anni e che non possiamo dire a voce alta per il solo fatto che “lo dice anche Trump”.
Per esempio che l’attuale dittatura cinese è tra le più spietate della Storia umana e che i genocidi commessi, uniti ad immagini come quelle della repressione brutale dei cittadini di Hong Kong, necessiterebbero di una mobilitazione collettiva permanente; che i giganti della Silicon Valley sono un gruppo di brutti ceffi a metà tra un branco di paraculi ipocriti e una banda di evasori fiscali e che è arrivato il momento di colpirli senza pietà con leggi ad-leviatanum; che la già citata “cancel culture” è la negazione stessa di quegli ideali illuministi e positivisti alla base delle moderne democrazie liberali; eccetera eccetera.

Ecco, in questo senso, dal punto di vista della libertà di espressione, le nostre vite dell’Era D.T.D., Dopo The Donald, saranno più libere, più sincere e dunque più salutari: ma questo non perché Trump le avesse censurate prima, quanto perché eravamo noi a censurarci per paura di essere equiparati a lui.
Per il resto, le nostre esistenze continueranno a scorrere come se nulla fosse, imperturbabili come l’acqua del Mississippi d’estate, subito dopo il tramonto.

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CAT: America

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