USA 2016, la crisi finanziaria di Porto Rico nella corsa per la Casa Bianca

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10 Luglio 2015

Atene in cambio di Porto Rico. E’ uno scambio “equo” quello che ha proposto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, a Barack Obama. Una battuta che denota un certo grado di irritazione da parte di Berlino, per quella che viene considerata una pesante ingerenza della Casa Bianca in una questione squisitamente europea.

Sono difatti giorni che il presidente degli Stati Uniti esercita forti pressioni sulla Germania e sull’FMI, per favorire una rinegoziazione del debito greco, che impedisca il realizzarsi di una grexit sempre più probabile. Le ragioni che muovono l’amministrazione Obama in questa direzione sono molteplici. Dalla necessità di una stabilità economica internazionale a considerazioni di carattere eminentemente geopolitico: il grande timore di Washington è difatti che un’eventuale grexit possa spingere la Grecia nell’orbita politica della Russia, permettendo così a Putin di estendersi ulteriormente a Occidente.

Come che sia, la venefica battuta di Schaeuble ha messo in evidenza una situazione socio-economica per molti versi simile a quella greca, ancorché collocata sull’altra sponda dell’Atlantico. Da un secolo gravitante attorno all’orbita statunitense e attualmente “territorio non incorporato”, a seguito di un referendum tenutosi nel novembre del 2012, l’isola di Porto Rico ha avviato il processo legislativo che la dovrebbe portare a divenire il cinquantunesimo stato della federazione americana.

Sennonché Porto Rico ha un problema non irrilevante: un debito di ben 72 miliardi di dollari, 25 dei quali contratti direttamente con gli USA: un debito che la sta spingendo a passo spedito verso la bancarotta. A fine giugno difatti, l’attuale governatore, Garcìa Padilla, ha candidamente dichiarato che “sono finiti i soldi” e che se i creditori si rifiuteranno di negoziare, rimarranno a bocca asciutta.

Una specie di pozzo nero, quindi, che preoccupa lo Zio Sam. E non senza ragioni. Se Obama teme ripercussioni economiche dal fallimento di un paese geograficamente lontano come la Grecia, figuriamoci per quest’isola, posta a due passi dalle coste statunitensi. Un’isola che – per giunta – dovrebbe a breve entrare a far parte degli States!

Davanti a un simile problema, il Congresso è stato chiamato a pronunciarsi, per stabilire innanzitutto se sia possibile un aiuto economico statunitense onde scongiurare il rischio di bancarotta e – in secondo luogo – per decidere l’entità di un eventuale aiuto. Il punto principale su cui verte il dibattito politico americano riguarda la possibilità di applicare a Porto Rico il capitolo 9 dello United State Banckruptcy Code, che permetterebbe una ristrutturazione del debito e conseguentemente la salvezza dal default. Ma – non facendo l’isola parte formalmente degli Stati Uniti – è appunto necessario il via libera da parte del Congresso. Un via libera fortemente caldeggiato dallo stesso Obama, il quale ha dichiarato che il fallimento dell’isola è “fuori discussione”.

Una linea – quella del presidente – prontamente sposata dall’Asinello e – nella fattispecie – dai candidati alla nomination democratica per il 2016: da Hillary Clinton a Martin O’Malley.  Anche perché  – visto che l’amministrazione in carica è posta sotto il vessillo democrat –sono proprio i candidati democratici ad aver maggiore necessità di una situazione economicamente stabile in occasione delle prossime presidenziali: laddove al contrario il GOP – oggi all’opposizione – dall’instabilità potrebbe trarre vantaggio.

Come che sia, il fronte repubblicano appare diviso. Da una parte ci sono i falchi, assolutamente contrari al taglio del debito (proprio perché espressione lobbistica dei creditori). Dall’altra, una considerazione di natura politica spinge non pochi esponenti del GOP ad assumere una linea nettamente più morbida. Una considerazione ben precisa. Il peso elettorale degli immigrati portoricani negli States è notevolmente cresciuto negli ultimi anni. Soprattutto in alcuni territori-chiave, come la Florida. Considerando che si vota tra poco più di un anno, diversi candidati repubblicani hanno chiaramente capito che alienarsi le simpatie di una quota elettorale ampia (e storicamente ben disposta verso le posizioni del GOP) non appaia come il massimo della strategia.

In questo senso, a fronte di alcuni personaggi di spicco dell’Elefantino che prediligono al momento ancora una posizione attendista ma tendente comunque all’apertura (si vedano i casi di Marco Rubio e John Boehner), dall’altra parte assistiamo a prese di posizione ben più decise.

E’ il caso di Jeb Bush, che ha nella Florida – nonostante la concorrenza di Rubio –  il proprio feudo elettorale. In tal senso, la posizione dell’attuale front runner repubblicano si è contraddistinta – come di consueto – per un’impronta profondamente moderata. Svincolandosi dagli eccessi di benevolenza (mostrati dalle frange più radicali del Partito Democratico), Bush si è detto favorevole all’applicazione del capitolo 9: un’applicazione che si sposi tuttavia all’impegno portoricano di riforme economiche strutturali e decise.

La crisi finanziaria di Porto Rico si rivela dunque un capitolo importante dell’attuale dibattito elettorale. Una crisi economica drammatica in cui gli States sono chiamati ad intervenire in prima persona: non ad emettere proclami, guardando comodamente dalla finestra. Questo Schaeuble lo sa. E difatti sghignazza sadicamente.

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CAT: America

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