USA 2016, salvate il soldato Bush

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26 Agosto 2015

Tempi duri per Jeb Bush, questi. Tempi durissimi. Mai come oggi difatti l’ex governatore della Florida arranca faticosamente, bersagliato da notizie funeste che lo raggiungono senza pietà ormai su ogni fronte. E così, colui che tre mesi fa scese in lizza con tutti i crismi di chi avrebbe dovuto incarnare la figura dell’autentico front runner repubblicano, adesso vede la propria strada pericolosamente in salita. E inizia seriamente a temere di non farcela.

Le tegole che sono precipitate sulla testa di Jeb soprattutto negli ultimi giorni sono numerose ed evidenziano una condizione di assedio senza precedenti nell’ambito di questa campagna elettorale (fatta eccezione forse per la – sotto certi aspetti – analoga situazione di Hillary Clinton sul fronte avverso).

Innanzitutto, è notizia recente una crescente difficoltà per Jeb nel reperimento di fondi. Un colpo non da poco, per un candidato da sempre abituato a rastrellare cospicui finanziamenti e che in questi termini vanta attualmente una raccolta pari a circa 120 milioni di dollari. Un’inversione di tendenza preoccupante, soprattutto alla luce di una campagna elettorale che si annuncia sempre più dura nei mesi a venire. Un’inversione di tendenza che potrebbe nuocergli anche in termini di immagine. Le ragioni di questa complicazione sarebbero d’altronde molteplici: in primo luogo, come riporta “Politico”, vi sarebbe una fisiologica stanchezza da parte dei suoi ricchi finanziatori, attualmente spompati (sembrerebbe) dopo gli ingenti flussi di denaro versati nelle sue casse in questi mesi. In secondo luogo poi, ancora peserebbe la fiacca performance televisiva sostenuta da Bush, in occasione del dibattito di Cleveland.

Un dato – quest’ultimo – tanto più preoccupante, se letto alla luce dei suoi recenti comizi e interventi, attaccati soprattutto dalla destra conservatrice a causa di proposte programmatiche spesso considerate troppo centriste e blande. E qui subentra allora un ulteriore problema che sta in questi giorni attanagliando Jeb: un’accanita concorrenza all’interno del suo stesso partito. Una pletora di contender che gli contesta apertamente ogni disegno di leadership e che – anzi – sembra sempre più trarre beneficio dall’attaccarlo, ora come candidato scipito ora come odioso esponente dell’establishment. Ed è così che Bush si trova proprio in queste ore sempre più schiacciato tra gli attacchi dei rivali.

A destra, il principale avversario – neanche a dirlo – è un miliardario in toupet: Donald Trump. Un Donald  Trump che crea sempre maggiore scompiglio all’interno di un partito ormai allo sbando: un partito in cui tutti gli equilibri vigenti sino a un paio di mesi fa sono – in gran parte a causa sua – oggi irrimediabilmente infranti: non solo Bush è progressivamente precipitato nei sondaggi, perdendo – tra l’altro –  la leadership in uno Stato storicamente centrista come il New Hampshire. Ma anche diversi suoi colleghi (a destra) non se la passano particolarmente bene, soprattutto in Iowa, dove Trump ormai spadroneggia da settimane: con grande preoccupazione non solo di Scott Walker (un tempo front runner nello Stato in questione e oggi piombato al terzo posto) ma anche del povero Rick Perry, ormai senza un soldo e in procinto di rivoluzionare il suo staff (tanto che – secondo indiscrezioni – potrebbe essere ormai prossimo ad abbandonare la competizione).

Ciononostante, è Bush il vero bersaglio di Trump. E, ogni volta che gli si presenti l’occasione, il magnate non esita ad attaccarlo, tacciandolo di eccessivo moderatismo e – sostanzialmente – di essere un candidato privo di spina dorsale. Una serie di critiche durissime che si appuntano in particolar modo sulla scabrosissima questione dell’immigrazione clandestina. Bush – da sempre aperturista su questo fronte – proprio ieri, durante un evento a Englewood (in Colorado), ha voluto non a caso precisare la differenza della propria proposta programmatica, rispetto a quella del magnate. Ha sostenuto l’importanza dell’immigrazione per l’economia americana e ribadito di voler conferire (quantunque a determinate condizioni) un “legal status” agli 11 milioni di clandestini ispanici residenti in America, attaccando il rivale di inconsistenza e demagogia.

La replica di Trump non si è fatta attendere: durante una conferenza stampa, tenuta poche ore fa in Iowa, ha ribadito la propria intenzione non soltanto di costruire  un muro difensivo lungo il confine messicano ma anche di deportare tutti gli 11 milioni di clandestini ispanici presenti sul suolo statunitense. E – guarda caso – non ha perso l’occasione per un nuovo affondo contro l’ex governatore della Florida, stavolta  definito “a low-energy person”. Sennonché – appositamente interpellato da un giornalista sulla fattibilità delle sue proposte – Trump ha glissato per l’ennesima volta: prima si è irritato e l’ha cacciato dalla sala. Poi lo ha riammesso ma ha concesso una serie di risposte evasive e inconcludenti che – ancora una volta – lasciano sorgere non pochi dubbi sull’effettiva concretezza (e serietà) di quella che dovrebbe essere la sua agenda politica.

Ma se la destra conservatrice mostra di non amare Bush, anche l’anima centrista del GOP sembra al momento piuttosto fredda nei suoi confronti. Innanzitutto, Marco Rubio – beneficiando della buona performance di Cleveland, in cui ha vigorosamente attaccato il suo vecchio mentore – è salito nei sondaggi, attestandosi su ottime posizioni. Ma la vera sorpresa in questi giorni è quella di John Kasich, il quale è attualmente dato al secondo posto proprio in New Hampshire. Quel John Kasich che presenta un’offerta programmatica profondamente moderata e dunque abbastanza simile a quella di Bush ma che – differentemente da quest’ultimo – è riuscito ad emergere in breve tempo e soprattutto senza eccessivo dispendio di risorse.

Sennonché, i guai per Jeb non si fermano all’universo repubblicano, in quanto mostra di avere seri problemi anche con la sinistra liberal, che da tempo studia ogni suo movimento con il solo intento di coglierlo in fallo. E giù quindi un profluvio di critiche e di polemiche. Settimane fa, Bush fu accusato di aver asserito che gli americani non lavorassero abbastanza. Poi gli è stato rinfacciato di essere un nemico delle donne, per aver dichiarato la sua intenzione (recentemente ribadita) di voler eliminare i finanziamenti pubblici previsti per l’associazione pro-choice, Planned Parenthood. Infine, nuove polemiche per aver denunciato l’altro giorno il fenomeno di quegli immigrati che fanno nascere i figli sul suolo americano solo per ottenere la cittadinanza statunitense: la comunità cinese si è risentita e subito il New York Times le ha fatto eco. E non citiamo neppure il risorto dibattito sulla guerra in Iraq, che vede Jeb attualmente come principale tra gli imputati.

All’interno di un simile marasma, è chiaro come in questo momento la situazione elettorale di Bush non risulti delle migliori. E probabilmente nessuno al momento della sua discesa in campo avrebbe immaginato potesse incontrare tali scogli. La strada per Jeb è indubbiamente in salita e – chi lo circonda – afferma come in queste ore sia preda di un profondo scoramento. Ma piano con i giudizi affrettati. Nonostante queste indubbie difficoltà, è bene ricordare almeno due cose.

Innanzitutto, la Storia insegna come i candidati in testa ai sondaggi tra settembre e novembre dell’anno antecedente alle elezioni, siano sovente destinati alla debacle: nel 2007, l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, era considerato il favorito non solo per la conquista della nomination repubblicana  ma anche per la vittoria alle presidenziali. Dovette ritirarsi poco dopo l’inizio delle primarie per mancanza di voti, appoggi e a causa di una strategia fallimentare. Nel 2011, il governatore del Texas, Rick Perry, era ritenuto da tutti i sondaggi il naturale candidato repubblicano alla Casa Bianca. Anche lui, a seguito di una serie di gaffe, fu costretto a ritirarsi all’inizio della corsa. Per non parlare di Hillary: a novembre del 2007 era data come favorita per le primarie democratiche: si è visto poi come è andata a finire. Considerati questi precedenti, il fatto che al momento Jeb non sia propriamente in testa ai sondaggi non appare allora come un elemento assolutamente negativo.

Infine, è bene ricordare che è di un Bush che stiamo parlando. L’esponente di una dinastia aristocratica, che sa cos’è il potere e che – soprattutto – storicamente conosce i meccanismi e le strategie per arrivare a conquistarlo. Una famiglia che ha sempre lottato, con le unghie e con i denti, contro i propri avversari, attraverso abilità politica, potenza economica e subdola doppiezza. Una casata antica, che fa della propria esperienza, dei propri network e della propria influenza l’arma letale con cui abbattere spietatamente gli avversari. Ma sempre con un caloroso e cordiale sorriso sulle labbra.

Perché un leone ferito può anche morire. Ma non si arrenderà mai senza combattere.

TAG: GOP, Jeb Bush, Stati Uniti, Usa2016
CAT: America

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