Caro Majorino, metti al centro l’altra Milano

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10 Novembre 2015

A fine 2010, pochi mesi prima della tornata elettorale che ha portato Giuliano Pisapia a Palazzo Marino, ho pubblicato una guida intitolata “L’Altra Milano”, che per la prima volta si occupava esclusivamente della città oltre le Mura Spagnole. Non proprio e non solo un vademecum delle periferie, ma quasi. Mi ero accorto infatti che la classica suddivisione delle tre circonvallazioni concentriche – che segnavano altrettanti step dello sviluppo della città in cui ero cresciuto – non era più rispondente a una realtà in rapido cambiamento.

Dopo un ventennio di immobilismo, Milano aveva ripreso a cambiare, e occorreva ripensare il racconto della città in funzione di quel mutamento. Senza troppo preoccuparsi di quel che sarebbe successo dopo: più urgente era cercare di cogliere il senso di tre elementi: il rapporto tra mutamenti e persistenze/preesistenze; la percezione della metamorfosi da parte delle persone che si muovono e agiscono nello spazio urbano; e infine le contraddizioni prodotte dalla concomitanza tra cambiamenti di lungo periodo-determinati “dall’alto”-e aggiustamenti di breve periodo-gli adattamenti “dal basso”. Ero infatti convinto che i secondi fossero essenziali tanto e forse più dei primi ai fini della comprensione del sistema di forze che stava ridisegnando il paesaggio urbano. Non mi ero accorto allora che tenere tutto assieme in un libro-per di più nel formato di una guida-era impossibile. Si potevano tentare degli affondi, lasciando poi che fossero altri strumenti-allora pensavo a un blog collettivo-seguissero quella traccia, soprattutto per la parte relativa alla percezione del cambiamento.

Ora che la produzione di narrazioni dedicate a quello che è successo a Milano negli ultimi anni ha superato il livello di guardia posso dire che, a fronte di una voluminosa “rassegna stampa”, continua a mancare un tentativo di esplorare ed esplodere in prospettiva multidimensionale il diario collettivo di quello che in molti considerano un mutamento epocale, una vera e propria riscrittura di quel che è Milano e del suo ruolo. E continuo a pensare che i processi in corso d’opera e quelli già completati non abbiano prodotto sino in fondo nella collettività e nella classe dirigente in primis la necessità di un lavoro di continuo aggiustamento e rimessa in discussione dei piani in atto. Carattere di sospensione, progetti non ancora finiti o che non sembrano tali, si affiancano ai grandi interventi stimolati all’inizio del nuovo secolo dall’ambizione della politica e dalla capacità (diventata poi necessità col conclamarsi della crisi) di attrarre investitori internazionali, al fine di consegnare nei tempi necessari per cogliere l’opportunità di Expo una Milano riprofilata per conseguire il rango di città globale. Anche grazie alla griffe dei nomi più riconosciuti dell’architettura internazionale.

Negli anni di Pisapia molte delle intenzioni prodotte – cosa che curiosamente non si scrive mai, per una forma di strano pudore che ha un retrogusto revisionista – dall’amministrazione Moratti si sono concretizzate attraverso l’effetto di una dinamica di smottamenti e trazioni provenienti da un variegato sistema di forze di carattere sociale, economico e politico. Diventando in più di un caso altro da sé, e in questo cogliendo il senso del mandato affidato a Pisapia dagli elettori, non solo con il voto ma anche con i quesiti referendari-disattesi forse negli esiti più complicati e visionari, ma pienamente rispettati per ciò che riguarda la direzione d’intervento. La Milano di questo improvviso boom principia dunque dal confronto e dalla sovrapposizione di due idee molto differenti di riqualificazione. Per una volta possiamo dire che il “mix di prodotto” ha funzionato. Occorre però domandarsi come ha agito e sino a dove è percepito. Anche se rimodulata, resta dunque attuale la domanda “Qual è l’altra Milano?”. Con la scelta di lasciar fuori il centro quella guida guardava anche nella direzione di uno dei principali “cantieri” che doveva essere aperto nei cinque anni a seguire: quello del processo di decentramento e del tentativo di farlo coincidere dove possibile con le necessità della nuova città metropolitana. Mettere a fuoco tutti i “centri fuori dal centro” avrebbe aiutato a conoscere meglio le identità riemergenti dai processi di trasformazione. Contro tutte le dinamiche di riqualificazione e gentrification possibili, resto infatti convinto che ciascuna delle microrealtà che compongono la parte viva di una città possiede un profilo antropologico ben preciso, incancellabile. É quella cosa che si comprende solo conoscendo la storia profonda di un luogo e che fa sì, per stare a due esempi di attualità, che un migrante arrivando a Milano e uscendo dalla stazione si diriga immancabilmente verso la zona dell’antico lazzaretto, o che un criminale di bassa tacca si aggiri dalle parti della Darsena per cercare di vendere la propria refurtiva. Quella storia che ci ha insegnato Primo Moroni e che appartiene al complesso dei movimenti sottotraccia, “dal basso”, che rispondono e in più di un caso resistono all’evidenza da cartolina o Instagram dell’innalzamento dello skyline.

Guardo in tal senso soddisfatto alla fioritura di nuovi tentativi di mappatura di forme di aggregazione e inclusione che ribadiscono lo scarto sociale e politico tra la forza ancora per molti aspetti respingente della megalopoli e la costruzione possibile di una città metropolitana dove i percorsi costitutivi delle identità abbiano tutti lo stesso rango. E credo che questa fioritura sia uno dei prodotti dell’immaginario più significativi della stagione politica segnata dall’amministrazione Pisapia. Considero anzi mappature e narrazioni come i numeri primi e germinali di nuovi cicli, anche in qualche caso a forte rischio di serialità e ripetizione, tuttavia necessari perché si realizzi compiutamente il senso del ridisegno personalizzato dell’immagine della città, in maniera coerente alla direzione della terza rivoluzione industriale, dove tutti possiederanno proprie mappe, propri stampi e propri sistemi di simboli e icone. La moltiplicazione delle narrazioni corrisponde a quella delle identità, e senza di essa assisteremmo a un fenomeno distruttivo di autismo corale. Vedo nel contempo sbriciolarsi paradigmi che sino a pochi anni sembravano avere una loro tenuta e coerenze, e in cui anch’io ho creduto. Uno è quello della città “lenta”, in cui le relazioni di prossimità e la vivibilità sono l’alternativa a un modello di città accentrata e “veloce”.

Milano in questi anni ha molto lavorato nella direzione della velocità, e questo è oggi uno dei suoi vantaggi competitivi. Velocità non vuol dire necessariamente aumento del divide ed esasperazione delle gerarchie. Ma occorre evitare che esista una differente velocità al centro e alla periferia dell’organismo metropolitano, e questo solo la politica può farlo, evitando di arroccarsi nell’esasperato miglioramento funzionale ed estetico del centro, e spostando gli obbiettivi della propria azione sulle periferie e le parti residuali e interstiziali-recupero qui una definizione che mi sembra ancora efficace-di anticittà. Non amo l’idea di pensare all’intervento sulle periferie come a una “ricucitura”. Credo invece che a Milano la conoscenza delle “preesistenze storiche e ambientali”, per citare Ernesto Nathan Rogers, debba guidare una cultura della progettazione urbanistica in cui l’assegnazione di funzioni di decentramento proceda attraverso la valorizzazione dei nuclei di identità locale oggi dissolti nel panorama indistinto della periferia “storica”.

Nei prossimi mesi assisteremo all’enfatizzazione e alla distorsione del tema delle periferie. Analizzando l’azione di Pisapia con lo sguardo alla riqualificazione della parte di città che sta oltre la circonvallazione filotramviaria 90/91 non possiamo non registrare un’attenuazione-per dirla con un eufemismo-degli effetti del boom di Milano, a cui probabilmente corrisponde oggi una diminuzione del consenso. La stessa decisione di limitare la congestion charge area alla cerchia delle Mura Spagnole vista da chi abita oltre quel limite resta comunque discriminatoria, perché banalmente disegna una gerarchia di valore interna alla città. C’è però una parte di lavoro fatta, ed è quella di riattivazione delle identità, attraverso i processi partecipativi. E a me sembra un lascito molto importante, quello di aver restituito alla città il senso di comunità, innescando una propensione civica che Milano possiede naturalmente più di altre città italiane.

Se oggi dovessi dare un consiglio non chiesto a Pierfrancesco Majorino e a quanti sfideranno Beppe Sala, è proprio la scelta precisa di non essere il sindaco di zona 1, come fatalmente, per Dna, sarà l’ad uscente di Expo, ma dell’Altra Milano. È forse dai tempi di Aldo Aniasi che la periferia attende un sindaco da sentire anche “suo”. Con le spalle larghe e il profilo rassicurante che porta in dote grazie al lavoro eccezionale fatto come assessore alle Politiche Sociali Majorino è la persona giusta. Gli manca però il colpo d’ala di una visione organica della città del 2030, quella che ha per esempio Stefano Boeri. Serve una sintesi di pragmatismo e immaginario, di azione e pensiero, un ticket che tenga assieme la spinta verso il cambiamento e la necessità che la periferia non resti indietro. In un Paese a tre o quattro velocità, Milano ne deve possedere una sola, “l’altra”.

TAG: beppe sala, dopo-pisapia, milano, pier francesco majorino
CAT: Architettura e urbanistica, Milano

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