Alla ricerca di Alessandro Magno tra le cime del Karakorum pachistano
Articolo di Emanuele Confortin, tratto da Alpinismi.
Sono considerati un popolo pagano. Fanno consumo di bevande alcoliche, hanno la pelle chiara, occhi azzurri e praticano una religione di tipo animista. Il tutto limitato a un’area di pochi chilometri quadrati in Hindu Kush, al confine tra Pakistan e Afghanistan, nel mezzo di un territorio delicato, punto di passaggio di guerriglieri, armi e mercanzie. Parliamo dei Kalash, gruppo etnico di origini antichissime i cui appartenenti sono considerati i leggendari discendenti delle truppe di Alessandro Magno, transitate da queste parti nel IV a.C., sulla via del Subcontinente Indiano.
Siamo nella propaggine occidentale del Karakorum, punto di inizio della più maestosa catena montuosa al mondo, l’Himalaya. Un’area dal grande valore paesaggistico, e dotata di un profondo significato simbolico. Non è forse in Kashmir, nella turbolenta regione montana contesa da 70 anni tra India e Pakistan, che qualcuno ritiene Gesù Cristo si stato sepolto? Poco più a est, nel Garhwal indiano sorge il Meru, già oggetto di un nostro precedente articolo, considerato l’axis mundi, il centro dell’universo, passaggio tra la sfera terrena e quella infera. Poi più a nord, isolato nel cuore dell’Altopiano tibetano, in vista del lago Manasarovar, si erge il Kailash, la montagna di cristallo in grado di catalizzare l’esperienza religiosa dell’universo buddhista. Nella lista delle meraviglie himalayane sembra ci posto anche per gli eredi del patrimonio genetico delle truppe di Alessandro. Questo almeno il risultato di una ricerca effettuata da Scientist sul DNA dei Kalash, e pubblicata nel 2014 dal New York Times, dalla quale emergono tracce di un significativo apporto di sangue europeo avvenuto proprio all’epoca del passaggio delle truppe di Alessandro.
Ben lungi dal voler accertare i rumors di una possibile discendenza macedone, nel 2011 mi decido a raggiungere Chitral e la valle dei Kalash. È l’epoca in cui l’esercito di Islamabad sta conducendo la propria guerra contro il Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), i talebani pachistani attivi quasi ovunque lungo la Durand Line, il delicato confine Af-Pak. Offensiva in tutt’ora in corso. Arrivo da un complicato reportage iniziato a sud, nel Sindh allagato dalle alluvioni di fine settembre e all’origine dello spostamento di centinaia di migliaia di persone all’interno di campi di accoglienza situati nelle zone emerse. Sono poi salito verso nord, in direzione della capitale Islamabad, quindi a Peshawar, per fare visita al campo di Jalouzai, dove altre migliaia di persone in fuga dalle zone di confine continuano a riversarsi all’interno dell’enorme tendopoli. L’idea originaria sarebbe quella di procedere verso il mitico Kyber Pass, e arrivare a Kabul, in Afghanistan, ma le condizioni di sicurezza sono pessime, pertanto decido di risalire il confine afgano verso nord, per giungere in vista del Tirich Mir che con i suoi 7.708 metri è la più alta montagna del Hindu Kush.
Il viaggio verso il Chitral e la terra dei Kalash inizia dalla stazione degli autobus di Peshawar. Sono da queste parti da un bel po’ di giorni ormai. La barba è cresciuta, poi indosso come da abitudine gli abiti locali, e mi difendo discretamente in urdu, la lingua pachistana, pertanto confido di passare inosservato. Condizione importante, l’anonimato, almeno durante il lungo viaggio di avvicinamento attraverso le Federally Administered Tribal Areas (FATA) e lo Swat, distretto del Khyber Pakhtunkhwa interessato da una consistente presenza di combattenti del TTP. Zia Ul Islam, giornalista di The News con cui ho collaborato a Peshawar sostiene io assomigli a un afgano. Del resto le nostre origini indo-europee derivano proprio dall’Asia Centrale, non viceversa. «Non avrai problemi di sicuro» afferma prima di lasciarmi al mio destino e quel minuscolo pulmino da 12 posti, nel quale scopro di essere il 17esimo passeggero. Nulla di nuovo per i costumi di queste zone, votate al trasporto low budget, non fosse per le 19 ore di strada previste.
Il viaggio dura un’eternità. Lo ricorderò fino alla vecchiaia come un delirio di check-point, interrogatori, gelo e scomodità assoluta. Nella lista va inserita anche la commovente ospitalità delle persone. Mi accorgo di essere abbastanza male in arnese ogni qualvolta veniamo fermati per i controlli dell’esercito. Un soldato apre la porta laterale, infila la testa nell’abitacolo e uno ad uno ci passa in rassegna con una torcia puntata negli occhi, un po’ per routine un po’ per cercare qualche anomalia, o uno straniero. Non mi riconosco quasi mai, salvo quando chiedono a caso i documenti di cinque o sei viaggiatori. Se il dito finisce su di me, non appena esibisco il passaporto la carovana si ferma e devo per forza scendere, seguire i militari per dei controlli, spesso in lingua locale, dando ogni volta le stesse spiegazioni. Superiamo almeno una dozzina di check-point, ma al quarto interrogatorio, uno dei viaggiatori, spazientito dai tempi dilatati per colpa di questo straniero, segue me e il soldato nel bunker sotterraneo, ricavato tra Swat e Dir. È un pashtun poco più che 20enne, ufficiale dell’esercito pachistano in Nord Waziristan, di rientro a Chitral in licenza. A forza di check-point ha capito che non sono una minaccia, pertanto decide di metterci la faccia velocizzando le procedure, del resto prima arriviamo meglio è! Intuisco appena il dialogo tra lui e il militare addetto ai controlli. «Sai che la zona seguente è difficile, se vuoi prenditi tu la responsabilità, consideralo tuo ospite», si sente dire il giovane ufficiale. “Ospite” dunque, nel cuore della terra dei Pashtun. Il ragazzo si gira, mi guarda e con un sorriso annuisce, accettando così di adempiere all’onere imprevisto, questione tutt’altro che semplice da queste parti. Ospitare qualcuno nella terra dei pashtun è una questione d’onore, una responsabilità totalmente ignota in occidente. Questo non implica cose tipo offrire un caffè, una fetta di dolce e poi via, ma coinvolge il proprio nome, quello della famiglia e del clan di appartenenza. C’è il rispetto di mezzo, in una terra dove la rispettabilità è tutto, pena l’esclusione dal gruppo. Del resto, un certo Osama Bin Laden era ‘ospite’ di una famiglia pashtun all’epoca della sua fuga in Pakistan, fino al compound di Abbottabad – poco lontano da Islamabad – dove è stato raggiunto e ucciso da un commando di Navy Seals, ad inizio maggio 2011. Nel mio caso l’onere è senz’altro minore, ma la sostanza non cambia. L’ufficiale – di cui purtroppo ho scordato il nome – prenderà la mia sicurezza a piene mani. Da quel momento in poi, ad ogni fermata, appena sceso dal pulmino mi saranno offerto un tè caldo, una sigaretta e la seduta più comoda, vicina alla stufa più calda, il tutto gratuitamente. Vietato mettere mano al danaro.
La corsa verso Chitral prosegue tutta la notte, compresa una sosta di tre ore a nord di Dir, prima del tratto più impegnativo tra le montagne. Sfioriamo il confine afgano di un centinaio di metri, fino a raggiungere il tunnel di Lowari, considerato un obbiettivo sensibile dei talebani, per questo circondato da diverse postazioni militari. Il pulmino stracarico avanza a fatica sulla strada sterrata e quando tentiamo di guadare un torrente, le ruote finiscono tra i sassi. Bisogna scendere, alleggerire il mezzo e spingerlo fuori, oltre il guado. La temperatura non è di 5 gradi ma due ragazzi in sandali entrano comunque nell’acqua fino alle caviglie, per sistemare qualche pietra davanti alle ruote, in modo da facilitare la ripresa della corsa. Pochi istanti dopo riusciamo a toglierci dagli impicci. Un soldato in mimetica sollecita la ripresa del viaggio. La città di Chitral è ormai vicina.
Qualche ora dopo è il tempo dell’ultima sosta, in quella che dalle nostre parti sarebbe un’area di servizio, costruita però in pietra viva, legno e mattoni. Il giovane ufficiale mi sistema, poi confabula con i presenti prima di infilare l’uscita. Qualche istante dopo vengo circondato da un manipolo di montanari grandi e grossi, almeno una ventina. Espressioni severe, lunghe barbe scure, cappello pashtun calato sopra sguardi profondi. Si avvicinano a semicerchio, fissandomi con insistenza. Io resto incastrato tra la parete e la stufa. Eccetto una finestra non ho altra via di scampo. Ad un certo punto le voci si fermano, nella stanza regna il silenzio. Da dietro la schiera si leva il suono ritmato di un battito di mani, e i miei ‘assalitori’ si trasformano in un coro di montagna. Le voci perfettamente intonate riempiono le intercapedini alle pareti, rimbalzano da una parte all’altra distendendo i volti, rasserenando gli sguardi, a partire dal mio. È il loro benvenuto in Chitral, terra di musica, di guerra e di ospitalità. Un ricordo commovente, l’onore più grande che potessi ricevere, accessibile solo si accetta di calare le difese, di affidarsi agli altri ricevendo in cambio un’ospitalità rara… Per i Kalash c’è tempo, del resto il viaggio a volte è più importante della meta.
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