Bernardo Strozzi nel cuore della collezione di Giovan Carlo Doria

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7 Marzo 2018

C’è una memoria letteraria, non esattamente attendibile, alla base della fortuna dell collezione di Giovan Carlo Doria, che è di fatto il cuore della mostra “L’ultimo Caravaggio, eredi e nuovi maestri”, ospitata dalle sede milanese delle Gallerie d’Italia. Si tratta de “La Galeria” di Giovan Battista Marino, raccolta poetica costruita come se fosse una quadreria o un museo disposto in versi, che prendono la forma di componimenti in diverse metriche-per lo più si tratta però di madrigali-che descrivono le singole opere, si tratti di un dipinto, una scultura, un’opera grafica o una miniatura. Marino, che, a partire almeno dalla sistemazione critica di Francesco De Sanctis, è stato a lungo considerato il massimo esponente della poesia barocca italiana (giudizio che forse è da correggere a favore di altri autori, più originali e moderni, da Tommaso Stigliani a minori come Marcello Macedonio), pubblicò “La Galeria” nel 1620 (il momento è più o meno quello in cui lo ritrae Frans Pourbus il Giovane), a soli cinque anni dalla morte, e a conclusione di una frequentazione assidua degli artisti più importanti del suo tempo, dal Caravaggio ad Annibale Carracci. La stessa affermazione romana del Merisi, al momento della commissione delle tele per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, fu favorita, anche se i termini della questione non sono ancora chiarissimi, dal Marino.

Frans Pourbus il Giovane, “Ritratto di Giovan Battista Marino”, Detroit, Institute of Arts, 1621, olio su tela, 81×65,7 cm.

Quando scrive “La Galeria” però il poeta è in Francia da cinque anni, dal 1615, e ci rimarrà sino al 1623: la sua fama di connoisseur è un dato di fatto,  ma i ricordi sono forse un po’ offuscati e il genere del componimento impone di non prendere alla lettera le indicazioni che contiene, come spesso si è voluto fare in passato. Marino non è un millantatore: conosce davvero le quadrerie di cui scrive. Ma non sta facendo un catalogo, e le fonti inventariali dirette ce lo hanno mostrato chiaramente, non dandoci i riscontri che qualcuno si era aspettato. Quando dunque dedica il componimento a Giovan Carlo Doria e alla sua collezione “de più eccellenti maestri del mondo”, ricordando che essa è stata creata “per nutrire (…) diversi giovani studiosi (in) un’Accademia nella propria casa”, dobbiamo da un lato prendere atto del rango dello scrivente, che era stato a corte degli Aldobrandini a Roma, dei Savoia a Torino, per finire coi Medici in Francia, e dunque parlava con piena cognizione di causa e misura della grandezza delle più importanti raccolte europee. Dall’altro non possiamo aspettarci di scorrere il testo e trovarvi riferimenti attendibili. “La Galeria” non è dunque un “sogno”, mero frutto di accensione poetica e di retorica barocca, ma non le si può chiedere troppo. Marino dice di aver visto nel palazzo del Doria opere di Camillo Procaccini, Luca Cambiaso, Santi di Titto, del Passignano e del Cavalier d’Arpino, e queste presenze sono state confermate, alla luce della pubblicazione degli inventari (avvenuta nel 2002). In particolare Marino omette del tutto di descrivere le acquisizioni relative ai pittori suoi contemporanei, non citando alcuna opera del Seicento, se si eccettua un doppio ritratto a opera di Peter Paul Rubens di Giovan Carlo con la moglie Veronica Spinola, che doveva ricordare, almeno così viene da pensare, quello che il pittore realizzò di sé e della moglie, che sta oggi alla Alte Pinakothek di Monaco). Non c’è traccia del ritratto equestre di Giovan Carlo dello stesso Rubens e e nemmeno di quello ravvicinato che reca la firma di Simon Vouet.

Simon Vouet, “Ritratto di Giovan Carlo Doria”, 1621, Parigi, Musée du Louvre, olio su tela.

Già Piero Boccardo nella bellissima mostra al Palazzo Ducale di Genova del 2004, titolata significativamente “L’età di Rubens”, aveva dedicato una sezione alla collezione di Giovan Carlo Doria, proprio in relazione alla possibilità degli artisti di frequentarla con intenzioni di studio. In quelle stanze Bernardo Strozzi entra in contatto con Giulio Cesare Procaccini, orientando il suo stile a una tavolozza più festosa e squillante, a timbri metallici e cromie cangianti, maturando un gesto che contempla la pittura di tocco. Così è per esempio nella “Salomè con la testa del Battista”, prestata per la mostra milanese dalla Gemäldegalerie dei Musei di Stato di Berlino. Il dipinto, che al momento dell’ingresso nelle collezioni del Kaiser Friedrich Museum, che lo acquisì sul mercato antiquario romano, nel 1914, è il probabile pendant di un’altra tela, raffigurante “Agar e l’angelo”, che ora sta al Seattle Museum (le dimensioni sono uguali e anche questa transitò in quell’anno a Roma. Si tratta di un olio che appartiene al momento in cui Bernardo Strozzi sta per lasciare Genova e trasferirsi a Venezia, dunque alla fine del terzo decennio del Seicento.

Bernardo Strozzi, “Salomè con la testa del Battista”, 1627/28, Berlino, Staatliche Museum, Gemäldegalerie, olio su tela, 124×94 cm.

Ho scelto questo dipinto perché è sintomatico degli scambi che avvengono nel palazzo di Giovan Carlo. La presenza a Genova di Orazio Gentileschi e Simon Vouet, che a quelle date sono già pienamente orientati verso un recupero del classicismo, ma sono comunque portatori di un linguaggio che è passato, anche se in diversa maniera, dal Caravaggismo, giustificano l’orientamento pure di Strozzi su di un tema ritornante di quella scuola, quello appunto della Salomè, e più in generale sul cupo realismo delle scene di decapitazione. Tra le realizzazioni di Vouet più significative del periodo italiano c’è un quadro che nel 1923 è entrato nelle raccolte del Comune di Genova, che lo ha acquistato dalla quadreria del marchese Giovan Battista Cambiaso. Ancora Carlo Boccardo lo ha ricondotto al “David di detto Ouet” inventariato nelle opere esistenti nella residenza di carrugio del Gelsomino (ora vico Monte di Pietà) al momento della morte di Giovan Carlo, nel 1625, unitamente al ritratto già citato e ad altre nove opere. Vouet rappresenta David quasi in un ritratto, attirato dalla luce che proviene da sinistra, che simboleggia la grazia. Il realismo del Caravaggio, così come quello di Borgianni e Gentileschi, i quali rappresentano l’attimo stesso della decapitazione, è dunque mitigato e accordato al gusto della committenza locale. Non di meno, Strozzi andrà ancora oltre, studiando attentamente il dipinto di Vouet, ma rileggendo alla luce di uno stile più artificioso e colorato e di una tecnica in cui il gesto emerge con disinvoltura e la conduzione pittorica è eccezionalmente brillante. Non possiamo non riferire questa maturazione al contatto diretto con Giulio Cesare, che per Bernardo costituisce un punto di riferimento continuo sin almeno dal “Compianto sul corpo di Cristo” (nell’immagine in apertura di pezzo), opera che oggi sta all’Accademia ligustica di belle arti, e che è modellato su di uno straordinario pezzo di bravura del Procaccini, quel “Cristo morto pianto dalla Maddalena” che stava proprio nella collezione di Giovan Carlo Doria, e che ora è esposto nella chiesa genovese di Nostra Signora della Neve. Da lì dovremo ripartire per sciogliere l’equivoco che ancora alberga in buona parte della storiografia, di uno Strozzi “caravaggista”, o per lo meno sospeso a metà tra realismo e maniera colorata.

Simon Vouet, “David con la testa di Golia”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, 1621, 121×94 cm.

 

TAG: Bernardo Strozzi, Giovan Battista Marino, Giovan carlo Doria, Giulio Cesare Procaccini, Peter Paul Rubens
CAT: Arte

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