Vita e morte di un maestro da fiaba

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5 Ottobre 2016

Al suo “mettete le giacche”, una dozzina o poco più di bambini, alunni di una classe delle elementari, si mette in marcia dietro alla lunga e rassicurante ombra del Maestro, per seguirlo tra le stradine di un paese della valle del Serio, a piccoli passi, uscendo via via dal centro abitato, rincorrendo il corso del fiume, per ritrovarsi, poco dopo, fra i boschi inerpicati sulle montagne, a osservare gli alberi, la piccola fauna, le nuvole placide e le nuvole minacciose. «All’una tornavano verso la scuola, bagnati di pioggia. “Ecco il pifferaio con i suoi topi!” ridevano quelli al bar, vedendoli attraversare la piazza. “Ecco Utrecht il suonato e i suonatori”.»

In classe, Maestro Utrecht insegna la matematica solo nei giorni di cattivo tempo – ché tanto sono giorni di per sé già rovinati. Più volentieri insegna invece le diverse razze dei cani e i nomi degli alberi. Ma soprattutto, insegna le parole. E non parole qualsiasi; men che meno in un ordine casuale. Cane e Pace per prime. Poi: il proprio nome, Viaggio e il nome di una città olandese: Utrecht. Dopodiché, Cavallo, Canale, Albero, Montagna, fino a Svizzera e Olanda; le voci del verbo Essere; quelle dei verbi avere e volere no, perché sono verbi che «come l’erba cattiva, crescono da soli.»

In appena tre pagine di “Maestro Utrecht” (scritto da Davide Longo, pubblicato da NNEditore nel gennaio 2016) si condensa immediatamente la strana dimensione sospesa tra realtà e fiaba in cui fluttua placidamente la figura del giovane ed eccentrico protagonista, il Maestro, dall’aspetto rassicurante eppure difficile da mettere a fuoco per intero – così come il suo carattere: assolutamente gioviale e sereno, a suo agio con i bambini della scuola elementare, ma che, per via dei suoi modi, dei suoi comportamenti e metodi inusuali, sembra nascondere qualche strano e inafferrabile segreto, se non addirittura una natura distante, aliena.

La figura di Maestro Utrecht viene introdotta e plasmata in un primo capitolo raccontato coi toni calviniani della fiaba realistica, mostrando in apertura un personaggio che, rivolto alla sua platea di piccoli allievi, sembra, più che associare banalmente un signficante a un significato, far letteralmente dono del bene a lui più prezioso – un bene tanto prezioso quanto alla portata di tutti: le parole. Maestro Utrecht ne insegna poche, un po’ alla volta; e quelle parole sono subito incantesimi, narrazioni in sé complete, interi mondi su cui restare a pensare per giorni, addirittura per mesi. Parole apparentemente distanti tra loro (Montagna e Plenipotenziario, per esempio), ma che celano un legame nascosto, fantasioso e arbitrario, reale e logico. Le parole sono congegni ancestrali, portano in sé l’essenza del tempo, la storia degli uomini e delle cose: ogni parola è potente, e va meditata; ma anche mostrata. Cane non è soltanto la somma di quattro grafemi messi in fila: è il richiamo magico e pragmatico per quell’animale che Maesto Utrecht fa toccare con mano ai bambini durante una gita al canile comunale. Pace è una parola che non è poi così astratta se viene usata per salutare, sorridendo, gli abitanti un po’ bigotti del paese. E anche Maestro – parola che ricorre con insistenza, pur non figurando nella “tavola periodica” del giovane Utrecht –, si presta a una verifica materiale, ma in questo caso da parte del lettore: tenendo presente la figura quasi maieutica del protagonista, e speculando sul vocabolo in sé, si entra in una dimensione altrettanto sospesa tra fiaba e realtà, in cui il Maestro diventa anche Mago, in virtù di una remota e condivisa radice indoeuropea tra Magister e Magus, quel mag- che richiama una mistica e indefinita idea di “grandezza”, perfettamente a misura di Maestro Utrecht, stregone-mentore tra piccoli apprendisti.
Il contesto fiabesco è alimentato anche dalle immagini prossime al mondo della natura – gli alberi, i cumulonembi avvistati nel cielo tra i rami delle betulle, le lezioni all’aperto, sdraiati in giardino –, e soprattutto dallo stile di scrittura, con le sue frasi semplici o dalla struttura minima, la sintassi piana, il lessico elementare, il ricorso all’espediente della ripetizione, l’uso pedagogico degli elenchi di parole del mondo “tecnico” degli adulti, a dare l’iniziale impressione – tutt’altro che spiacevole, visto il contesto e l’esperienza di Davide Longo come autore di testi destinati ai più piccoli – di letteratura per l’infanzia: «Non si sapeva mai quando poteva essere una mattina “mettete le giacche” perché le mattine “mettete le giacche” non dipendevano dalla stagione, dal meteo o dal programma. Potevano essere più d’una a settimana o mancare per un po’, ma prima o poi ce ne sarebbe stata una e sarebbe stata diversa dalla precedente.»

Si è, come detto, ancora al primo capitolo, sulla soglia del racconto: si comincia a pregustare una narrazione lieve, luminosa, il piacevole straniamento di un linguaggio che ricorda l’infanzia applicato a un personaggio che si muove in un contesto reale, in un paese tra Bergamo e Cremona, lungo il fiume Serio, un personaggio che sembra un paziente maestro zen perfettamente a suo agio nel piccolo monastero che è la sua classe, in cui appare quasi come un bodhisattva nostrano che rifugge la razionalità della matematica e mette in guardia i suoi allievi dai pericoli del volere e dell’avere. Un microcosmo con sede nel profondo nord d’Italia, ma che poco a poco, lasciando intravedere sempre più realismo a scapito di una magia man mano disattesa, una pagina dopo l’altra, rivela qua e là qualche inevitabile grigiore, fino a sancire, realisticamente, l’impossibilità di un idillio infinito fra il mago Utrecht, i suoi piccoli discepoli e la benevola natura tutta intorno.

A passeggio nel cortile dell’Archivio Storico di Utrecht troviamo Davide Longo. Lo incontriamo in veste sia di personaggio che di Narratore – dinamica che rispetta il canone moderno dell’autofiction, ma che, in questo racconto, percorre inizialmente un piano parallelo rispetto a quello principale. Davide Longo è ospite di un programma di residenze per scrittori stranieri, ed è stato contattato per scrivere un testo sulla città di Utrecht e, in vista del trecentesimo anniversario, sul trattato di pace che venne lì firmato nel 1713 per porre fine alla Guerra di successione di Spagna. Bram Buijze, responsabile del programma per cui Longo è stato ingaggiato, durante la firma delle solite scartoffie per il compenso e per i diritti di pubblicazione del testo, sorseggiando una birra, di punto in bianco, se ne viene fuori con una domanda totalmente avulsa dal contesto, apparentemente scollegata dalle chiacchiere fatte fino a quel momento: «Mai sentito parlare dei poeti della Lonely Funeral?». È la domanda che chiude il secondo capitolo – un capitolo ora lontano dal fiabesco e scritto in prima persona, con una prosa controllata e precisa nelle descrizioni, ricca di digressioni introspettive –, e che lascia intendere una storia ben lontana dall’essere la fiaba lineare delle prime pagine; si materializza così uno strano e intricato puzzle, dai pezzi piccolissimi e dalle forme tutt’altro che usuali: se “Lonely Funeral”, in prima battuta, dice poco o niente senza alcun contesto di riferimento, più avanti si scoprirà invece che «esiste in Olanda, dice Bram, un’associazione di poeti che presenziano ai funerali di chi viene sepolto senza amici e familiari», e che non molto tempo addietro un poeta olandese della Lonely Funeral, a Utrecht, presenziò la sepoltura di un italiano, un uomo sulla quarantina, un certo Stefano M***, trovato morto sotto un viadotto autostradale, con in tasca un solo brandello della propria carta d’identità.

La narrazione che prende a svilupparsi da qui in poi, di fatti, corre su due piani diversi, paralleli: la vicenda di Maestro Utrecht da una parte, l’indagine personale dello scrittore Davide Longo dall’altra. Il primo piano, con Maestro Utrecht che viene allontanato dalla scuola elementare perché troppo svagato e naïf secondo i genitori dei suoi alunni, prenderà una piega diversa da quella prettamente fiabesca, diventando poco a poco una raccolta di aneddoti improbabili – una diceria, le cui origini sono perse nel tempo e nel coacervo di variazioni sul tema, vorrebbe che il padre di Maestro Utrecht fosse addirittura un infiltrato nella banda Bader Meinhoff –, testimonianze in presa diretta di chi si è visto passare davanti Maestro Utrecht come un fantasma, silenzioso e quasi incorporeo, eppure una presenza: il racconto assume così la forma di un divertente mockumentary, a metà tra il verosimile, il realismo magico installato nella provincia lombardo-veneta e la fandonia tanto grossolana quanto irresistibile, tipica del racconto orale e popolare. Parallelamente, il secondo piano di narrazione è quasi un diario minimo, intimista, di uno scrittore-turista che si muove timido in una città tranquilla ma fin troppo silenziosa, in un appartamento tanto spazioso da far rimbombare persino i pensieri più distanti e passeggeri.

Il trait d’union fra questi due piani narrativi (e temporali, visto che il personaggio di Davide Longo agisce nel 2010, Maestro Utrecht da metà anni Novanta in poi) è niente di meno che la pura idea di Storia, o meglio ancora di Racconto – ancor di più, lo stesso raccontare – ma nella sua maniera più concreta, artigianale: l’idea di base, la sostanza delle parole messe in fila dal Longo Autore, è proprio l’essere scrittori e partire da un indizio, da un’intuizione, da un’imbeccata («Mai sentito parlare dei poeti della Lonely Funeral?»), per poi avviare la speculazione, associare nomi di città o personaggi del passato a scenari del tutto estranei alla loro natura, connessioni improbabili, eppure possibili in una struttura coerente di narrazione letteraria, cioè il mondo a cui Davide Longo appartiene e nel quale si muove. Come Maestro Utrecht si sposta lungo tutto il settentrione, senza soldi, né auto, contando sull’ospitalità della gente, lasciando piccole e trasparenti tracce di sé, Longo va a ritroso, indaga, cerca di contattare la stessa Lonely Funeral, deragliando dal binario principale, cioè il testo assegnatogli sulla pace di Utrecht, e prendendo a cuore la vicenda di uno sconosciuto, un connazionale ritrovato morto nel posto più impensabile, soggetto di una vicenda tanto triste e macabra, quanto misteriosa e inspiegabile. I germi di un racconto si sono fatti largo già da un pezzo.

«Uno scrittore non si ciba di vita propria o altrui, ma ne ritaglia porzioni, le trascina nella tana e aspetta che su quei brandelli in decomposizione, grazie al luogo caldo, chiuso e poco areato, nascano le storie.» È la metafora della formica tagliafoglie, che identifica lo scrittore come un essere laborioso e paziente, che prende e porta nel suo luogo sicuro quel che può, per poi aspettare il momento giusto, in seguito a lunghissime rielaborazioni, di trasformare l’idea in storia, così come il brandello di foglia decomposto diventa fungo e quindi nutrimento. È la più classica delle dichiarazioni di poetica (sia del Longo Autore, sia del Longo Narratore), la lezione holdeniana, semplice, figurata e intuitiva, del lavoro necessario a chi voglia scrivere una storia. Ma è anche la chiave del piano meta-narrativo del racconto, che mostra la struttura del Maestro Utrecht raccontato, ri-costruito; l’intero reseconto del soggiorno olandese di Longo è lo scheletro del testo che egli stesso andrà a comporre, la premessa – quasi la giustificazione universale dello scrittore: del perché si prenda quel che si può dalla vita, cercando, tramite la scrittura, di restituirgli un tempo infinito, una densità incalcolabile, un peso specifico incommensurabile in termini di materia, una dimensionalità trascesa – com’è la letteratura.

Ecco come e perché Stefano M***, italiano emigrato in Olanda, un passato da tossicodipendente, poche cose sul suo conto tranne la manifesta volontà di essere una persona libera, libera di andare in qualsiasi posto e di stare con qualsiasi persona, lo Stefano M*** ritrovato morto sotto il viadotto autostradale di una città agli antipodi dei luoghi per lui abituali, quelli di nascita, diventa l’inafferrabile e misterioso Maestro Utrecht, «persona lieve e sognante, una sorta di Amélie in versione maschile», un personaggio che arriva dal nulla nel mezzo di un paese qualunque e, con i suoi modi indecifrabili, inspiegabilmente, riesce a far vincere un’operaia di un’azienda tessile al superenalotto, comunica con un bambino autistico per mezzo delle sue parole magiche, Cane, Pace, Plenipotenziario, seguitando senza soste né un motivo chiaro per la sua strada, come la figura archetipica del vagabondo, del mago bianco, il mistico operatore del bene, e assumendo a volte persino i contorni sacri della divinità, quasi un Ermes errabondo, sapiente e imperscrutabile, le pedule al posto dei calzari alati, figura in bilico tra terra e nuvole, difficile da incasellare persino sessualmente («Lo so che è brutto paragonare un uomo a un fiore, di solito si fa con le donne, ma lui sembrava un fiore e nient’altro» fa dire Longo a uno dei personaggi del suo mockumentary). Divino e portatore di luce, a detta di ogni persona incontrata, come un Buddha, ma inscritto in una specie di parabola tragica che, considerato l’epilogo, possiede una carica simbolica che sfocia nella cristologia, pur evitando pesanti richiami alla religione.

L’esposizione intrecciata dei due piani, narrativo e meta-narrativo, Maestro Utrecht e Stefano M***, danno alla storia uno spessore particolare, un intricato ma armonioso tessuto di finzione, realtà, cronaca e fiaba, in cui tutto è perfettamente coerente; da una parte estetiazzata fin quasi a una polarità infantile, dall’altra densa di un’onestà e di un’accuratezza testuale, quasi una cronaca, ai limiti della lezione di scrittura vera e propria; ne vien fuori un testo circolare, equilibrato, fra divertimento e profondità narrativa, in cui emerge la figura salvifica del ruolo dello scrittore, capace di tutto pur di rincorrere la sua storia, che allo stesso tempo è un’ode alla letteratura stessa: l’unica dimensione in cui la tragica fine di uno sconosciuto può elevarsi a una potenza infinita e restare sospesa e osservabile per sempre, quasi e più di una stella, invece che rimanersene nell’oblio di un anonimo tratto autostradale di Utrecht. Si tratta del nobile e continuo sforzo di strappare più vita possibile alla morte; e può succedere che uno sconosciuto, andato via troppo presto, senza sapere né come né perché, diventi Maestro Utrecht, il mago buono di una fiaba per scrittori.

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CAT: Arte, Letteratura

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