CONFINI: (S)confinamenti. Antropologia pubblica e frontiere

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1 Maggio 2020

per /CONFINI/

Da: Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera, Francesco Vietti

Università degli Studi di Milano-Bicocca

 

In un’opera dell’artista albanese Adrian Paci, un gruppo di persone accalcate su una scala di imbarco al centro di una pista di atterraggio vuota attende un aereo che non è ancora arrivato, non arriva o, più realisticamente, non arriverà mai. Immersi nella vacuità di un terminal aeroportuale, circondati da asfalto bollente, i viaggiatori aspettano, paralizzati in una permanenza temporanea che sembra sfuggire alle logiche del tempo e dello spazio. L’opera riflette evidentemente sulla condizione dei migranti transnazionali e delle politiche migratorie, ma, in tempi di pandemia e di isolamento forzato, ci interroga con insistenza sulle sorti di questo tempo così peculiare. A ben guardare l’opera, infatti, notiamo diversi elementi che raccontano la nostra recente quotidianità. La lunga fila ci ricorda quelle del supermercato; lo spazio aeroportuale ci ricorda del blocco della mobilità nazionale e internazionale; lo stato di attesa del gruppo di persone illustra la nostra condizione quotidiana di fronte a una situazione liminale che sembra non sbloccarsi, apparentemente temporanea ma possibilmente eterna.

Eppure, dell’opera di Paci vorremmo concentrare l’attenzione su un aspetto particolare: il confine. L’installazione sembra infatti interrogare proprio la nozione, la pratica, la poetica del confine, mostrandone al tempo stesso l’impalpabilità, il simbolismo, la concretezza degli esiti della sua esistenza. Attraverso un riposizionamento significante dell’opera nel contesto attuale, Centro di permanenza temporanea interroga anche noi sulla percezione del confine e dei confini all’epoca del Covid19, mostrando la piena rilevanza di un’interrogazione artistica, intellettuale e umana a partire da questo elemento. Ci ricorda inoltre la centralità dei confini e del distanziamento sociale nella vita quotidiana, in particolare di alcuni gruppi sociali, ben prima dell’attuale pandemia.

 

Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007, video, 5’30’’, courtesy dell’artista e di Kaufmann Repetto, Milano, Peter Kilchmann Gallery, Zurich

 

L’antropologia si è occupata approfonditamente dello studio dei confini in tutte le loro manifestazioni: spaziali, sociali, simboliche, rituali (Fabietti, Remotti 1997, p.190) per mostrare che il confine non rappresenta in alcun modo una demarcazione netta, una divisione rigida, una frattura territoriale, ma piuttosto una zona di contatto ad elevata porosità. In questo senso, privilegia l’immagine della  frontiera piuttosto che quella del confine. Di fronte a presunte differenze inconciliabili e separazioni chiare, mette in luce gli scambi, le contaminazioni e i sincretismi, nella convinzione che la ricerca ossessiva dell’identità conduca alla perdita di sé, allo svuotamento, più che alla salvezza (Remotti 2010). Le epidemie, al contrario, portano con forza al centro la necessità di distinguere fra sé e altro, puro e impuro, così come esasperano la paura dell’estraneo, potenzialmente contaminato e contaminatore. Assistiamo in questo modo a una moltiplicazione dei confini, o meglio a una percezione più intima e profonda dell’esistenza dei confini, a partire da quelli dei nostri corpi, che diventano santuari da tutelare e proteggere dall’invasione del virus (virus “straniero”, tra l’altro, come ci ha ricordato l’antropologo Marco Aime) (Aime, 25 febbraio 2020). Inoltre, la percezione del confine sembra essersi spostata anche sul piano temporale. Infatti, pare essersi rafforzata la percezione di una frattura netta, una crepa, tra passato, presente e futuro. Il tempo di ieri, di oggi e di domani appare scoordinato e scomposto; l’immaginazione attraverso cui percepiamo è inceppata, zoppa, impantanata in un eterno presente. Infine, la nostra stessa casa – per chi ne ha una, perlomeno – diventa luogo di confino. Viene da pensare che Cristo non sia arrivato neanche a Eboli, ma si sia fermato nelle case di ognuno di noi.

A ben guardare, tuttavia, il lockdown non ha solo irrigidito i confini ma li ha anche destabilizzati, perché, come abbiamo capito sulla nostra pelle, non c’è muro che possa tenere fuori il virus. Una situazione che ha portato a imprevedibili dislocazioni, a una rimodulazione della contrapposizione fra dentro e fuori; così ad esempio nel confinamento facciamo l’esperienza della reclusione, nel momento in cui migliaia di detenuti, per contenere il rischio del contagio sono spostati dalle celle ai domiciliari. Situazioni molto diverse ma che ora trovano un punto di contatto.

Come gruppo di lavoro che promuove un’antropologia pubblica, tesa al dialogo e all’azione concreti con e sui territori dove opera, ci siamo interrogati su come agire al fine di ricucire questi strappi, di rendere porose queste nuove frontiere della vita sociale, di promuovere forme innovative di sconfinamento.

Lo strumento che abbiamo messo in campo nasce dall’esperienza maturata negli anni passati in quanto gruppo di lavoro del World Anthropology Day – Antropologia pubblica a Milano dell’Università di Milano Bicocca, un’iniziativa nata in seno all’American Anthropological Association che si propone di mostrare l’importanza e l’utilità del sapere antropologico, che abbiamo portato a Milano due anni fa.

Da questa esperienza è nato il blog “La Giusta Distanza. Piccolo osservatorio etnografico sull’isolamento”. Uno spazio aperto a tutta la comunità antropologica, ma non solo, come piattaforma di espressione, condivisione e confronto. Ospita minute esplorazioni etnografiche relative agli effetti dell’epidemia da coronavirus sui territori, auto-etnografie legate alla condizione di restrizione della mobilità e della socializzazione, riflessioni più ampie sugli scenari presenti e futuri, indicazioni di percorsi di lettura e segnalazioni di testi e autori che possano aiutarci a interpretare i processi in atto. In questa fase di chiusura e isolamento, il blog vuole essere uno spazio di apertura e di contatto.

“La giusta distanza” ha cominciato a pubblicare i suoi primi contenuti il 10 marzo, a poche ore di distanza dal DPCM che introduceva le prime, drastiche misure di contenimento e isolamento per l’intero territorio nazionale. Nel mese che è nel frattempo trascorso abbiamo ricevuto una cinquantina di contributi da parte di antropologhe e antropologi che hanno proposto percorsi di riflessione teorica, condiviso spunti legati alla propria quotidianità, raccontato la scelta di implicarsi anche in questo frangente attraverso collaborazioni con il settore sociosanitario. Alcuni ci hanno inviato cronache dai propri contesti di ricerca, anche fuori dall’Italia. Molti studenti hanno trovato nel blog uno spazio di espressione e di confronto. Per tutti noi, più che il contenuto delle nostre analisi, è stato importante l’atto del leggere e dello scrivere, che ci ha permesso di continuare a sentirci parte di una collettività, di non interrompere la rete di amicizie, conoscenze, connessioni che nel corso del tempo abbiamo coltivato attraverso i nostri studi e il nostro lavoro.

Recentemente il blog è entrato in una seconda fase, in cui desideriamo promuovere una riflessione collettiva sul futuro. Il confine tra l’oggi e il domani non è mai stato così invalicabile: le riflessioni che proporremo sul blog saranno ponti, possibili strade da intraprendere per immaginare collettivamente il futuro e sconfinare da un presente paludoso. In generale il blog vuole essere uno strumento dinamico e incerto, uno strumento di frontiera, nato sulla frontiera. Ugo Fabietti ha scritto: “L’antropologia è una frontiera perché è un «altrove» metaforico che mette alla prova le certezze della tradizione culturale da cui proviene, una specie di «figlia ribelle» e niente affatto propensa all’obbedienza nei confronti della tradizione di pensiero da cui è nata” (Fabietti 2012, p. 3). Allo stesso modo, quello che stiamo vivendo è un tempo che necessita di “figlie” e “figli ribelli”, capaci di trasgredire i confini delle forme di sapere e di agire sociale che sono stati messi in campo finora.

 


 

Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera e Francesco Vietti sono un gruppo di antropologi del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, dell’Università di Milano-Bicocca.  Dal 2019 organizzano l’evento World Anthropology Day – Antropologia Pubblica a Milano e da Marzo 2020 curano il blog La giusta distanza, nella convinzione che l’antropologia possa aiutare a comprendere il mondo, fornendo soluzioni pratiche ai problemi della quotidianità e alle sfide globali.

 



 

/CONFINI/

@Confiniartproject è un instaproject creato con i video inviati dalle persone durante l’emergenza #coronavirus

È un progetto di Vera Pravda in collaborazione con @viafarini_org per generare comunità culturali, stratificazione visiva, vicinanze virtuali in questo tempo sospeso.

Chi desidera può partecipare al progetto con uno o più video di 15 sec. su www.confiniartproject.it

In affiancamento alla pagina Instagram, riportiamo qui highlights e approfondimenti.

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CAT: Arte, società

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