Cronaca

Emanuela Orlandi e il ruolo di Mario Meneguzzi tra dubbi e sospetti

La verità su Emanuela Orlandi potrebbe essere più semplice di quanto raccontato e riportare dentro l’ambiente parentale

14 Novembre 2025

Il caso di Emanuela Orlandi poteva essere risolto in poco tempo se si fosse indagato meglio tra i conoscenti della cittadina vaticana. Che Mario Meneguzzi abbia avuto un ruolo nella scomparsa della nipote-come colpevole o come fiancheggiatore-inizia a essere più di un sospetto se si esamina con la lente di ingrandimento il suo comportamento nei giorni successivi alla scomparsa della studentessa di musica. 

Dove si trovava Mario Meneguzzi il giorno della scomparsa di Emanuela Orlandi? “Era fuori Roma, in un posto lontanissimo”, ha dichiarato Pietro Orlandi. In realtà Meneguzzi non si trovava “lontanissimo”. Si trovava a Torano, vicino Rieti, distante da Roma cento chilometri, raggiungibile in un’ora di macchina. Considerato che Ercole Orlandi, papà di Emanuela, disse di averlo contattato a mezzanotte per chiedere una mano nelle ricerche, cinque ore dopo la scomparsa della figlia, l’uomo poteva teoricamente fare una capatina a Roma e tornare a Torano in poco tempo.

Meneguzzi, fin da subito, si attivò per cercare la nipote, ma con iniziative poco trasparenti. Si recò all’Ansa per far pubblicare l’annuncio della scomparsa di Emanuela ventilando l’ipotesi di un rapimento quando gli inquirenti pensavano ancora a una scappatella. Riempì gli annunci sui quotidiani di dettagli fuorvianti. Mostrò di conoscere particolari sull’abbigliamento di Emanuela che Natalina Orlandi, stranamente, non aveva citato nella denuncia di scomparsa. Divulgò sui giornali e sui manifesti che riempirono Roma il numero di telefono di casa Orlandi senza prima consultarsi con gli inquirenti e spalancando le porte a una serie di mitomani e testimoni più o meno volenterosi che fornirono informazioni false, finendo solo per inquinare le indagini.

Mario Meneguzzi non si limitò solo a far pubblicare gli annunci di scomparsa, ma assunse anche il ruolo di mediatore tra la famiglia Orlandi e i finti rapitori, cosa che non sarebbe stata necessaria se l’intraprendente zio, anziché divulgare il numero di casa Orlandi, si fosse limitato a divulgare il numero di polizia o carabinieri che, a differenza degli Orlandi, sapevano bene come muoversi e cosa fare, compreso intercettare telefonate e telefonisti. Ma il Meneguzzi se n’era fregato e si mise a rispondere ai chiamanti di cornetta, come Pierluigi e Mario, tenendo gli inquirenti all’oscuro del contenuto delle conversazioni che intratteneva con i presunti rapitori.

Rapitori, come “l’americano” che simulava un inglese maccheronico e diceva cose deliranti, che non fornirono mai una prova che la ragazza fosse viva e si trovasse nelle loro mani, cosa che è alla base di qualsiasi ricatto politico o economico che sia, ma fecero ascoltare solo una registrazione vocale in cui Emanuela Orlandi, con voce sorniona, come se stesse a un casting e non nelle mani di delinquenti, ripeteva sempre la stessa frase. Un audio che poteva essere stato fatto anche un mese prima della sua scomparsa ma che bastò per accontentare il Meneguzzi il quale nemmeno chiese di ascoltare la voce della nipote dal vivo per sincerarsi che fosse viva e stesse bene. 

Pietro Orlandi lo ha definito persona fuori da ogni sospetto. Si, certo, come no! In realtà le cose non stanno così. La pm Margherita Gerunda fu la prima a sospettare di lui. Notò che l’uomo tallonava un po’ troppo la procura per sapere cosa stessero scoprendo i magistrati. Cosa che la insospettì e la costrinse a tenerlo lontano dalle indagini. Il pm Domenico Sica fece anche di più. Aveva saputo che Meneguzzi, capo ufficio della Camera dei deputati, con importanti agganci politici e legami con i servizi segreti, aveva molestato sessualmente anche Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, e che apparteneva a una cricca di personalità del Parlamento che avevano l’abitudine di approfittare del proprio ruolo per estorcere sesso alla dipendenti di Montecitorio o a chi ambita a entrarci. Forse, nel tentativo di raccogliere prove che lo inchiodassero alle sue eventuali responsabilità lo fece anche pedinare, ma l’uomo fu avvisato da un amico del Sisde, l’allora servizio segreto civile, e l’operazione andò in fumo.

La cosa che taglia la testa al toro è che, quanto riferito da un avvocato, il pedinamento, definito giuridicamente OCP (operazione controllo pedinamento), rientra nelle fasi di indagini preliminari e viene compiuto solo quando ci sono gravi indizi di colpevolezza verso una persona. Questo vuol dire che Sica dovette raccogliere indizi compromettenti contro lo zio di Emanuela. Forse le impronte digitali sui documenti fatti ritrovare in un plico lasciato in un cestino in piazza del Parlamento, luogo dove lavoravano diversi parenti di Emanuela, compreso lo zio. O forse dovette notare la somiglianza tra Meneguzzi e l’identikit disegnato da un vigile urbano che disse di aver visto Emanuela a colloquio con un uomo prima che entrasse nella scuola di musica. Quel profilo aveva dei connotati del viso simili a Meneguzzi.

Un indizio ignorato dai magistrati che si susseguirono negli anni successivi e che non si preoccuparono di confrontare quel profilo con gli adulti che ruotavano intorno al contesto amicale e parentale della studentessa di musica. Una lacuna aggravata anche dal fatto che nessuno si premurò di sapere dov’era lo zio Mario mentre la nipote spariva nel nulla e nessuno cercò di capire chi aveva ingaggiato e pagato l’avvocato Gennaro Egidio che sostituì Mario Meneguzzi nella presunta trattativa con gli inesistenti rapitori. Avvocato che alla fine confesserà che Emanuela Orlandi non era stata rapita, ma che era scomparsa come scompaiono tante ragazze ogni anno, suggerendo di battere meglio la pista amicale a parentale della giovane. 

Ciò che colpisce è l’ira di Pietro Orlandi quando ha capito che i magistrati italiani stanno scandagliando la pista familiare per assicurarsi che l’orco che fece scomparire la sorella non si annidava nella cerchia vicina alla ragazza. Domenico Sica ne era certo: Emanuela scomparve dopo un incontro con “un adulto molto vicino alla ragazza”, riferendosi proprio a Mario Meneguzzi della cui colpa, secondo il collega Ilario Martella, Sica era più che convinto. Talmente convinto da ignorare la pista del rapimento terroristico e lasciare che a correre dietro ai fantasmi ci pensassero altri. E intanto, secondo quanto riporta l’archivio storico de Il Corriere della Sera, sembra che l’uomo a colloquio con Emanuela era giunto a bordo di una Mercedes. Vera o falsa che sia questa notizia, è da notare un particolare curioso: Mario Meneguzzi era proprietario di tre vetture. Una di queste era proprio una Mercedes. Una coincidenza? Può darsi. Ma questi sono i fatti. Poi ognuno è libero di credere in ciò che vuole.

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