“Ave, Cesare!”: di fratelli terribili, cinema di genere e altre amenità

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12 Marzo 2016

Joel e Ethan Coen non hanno bisogno di presentazioni, e Ave, Cesare!, diciassettesimo lungometraggio al vetriolo del glorioso duo del Minnesota, non ha bisogno di preamboli. Con un soggetto nel cassetto già dal 2004 e a un mese dall’acclamata apertura della Berlinale, è finalmente sbarcato in Italia il terzo e ultimo capitolo della “Numbskull Trilogy” targata Coen, dopo Fratello, dove sei? e Prima ti sposo, poi ti rovino. Il cast è straordinario e tra gli interpreti principali non poteva esserci che George Clooney. Sempre più spassoso nella sua esplicita autoironia, stavolta è alle prese con quello che, a suo dire, è “il personaggio più stupido che abbia interpretato per i Coen”: Baird Whitlock, star di punta del Capitol Studio e protagonista di un colossale peplum nel quale è un centurione romano che trova la fede dinanzi a Cristo in croce.

Josh Brolin in "Ave, Cesare!" di Joel e Ethan Coen. Universal Pictures International Italy

Universal Pictures International Italy

Strenui frequentatori delle rappresentazioni hollywoodiane d’altri tempi, all’interno delle quali si muovono ormai con un agio assoluto, Joel e Ethan Coen ci accompagnano nei meandri produttivi dei grandi colossal del cinema di genere, che affrontano con nonchalance e maestria mantenendo ben saldo il loro riconoscibilissimo marchio autoriale. Humour nero e cinismo pungente sono le basi su cui i due fratelli innalzano questo mirabile mausoleo al cinema-che-fu, grondante citazionismo e aneddotica di costume.

È così che in una Hollywood del 1951, in pieno maccartismo e in piena Golden Age, ci troviamo a seguire i frenetici passi di Eddie Mannix (Josh Brolin), instancabile “fixer” alle prese con teatri di posa, colossali produzioni, guai e capricci di star da gestire.

Scarlett Johansson in "Ave, Cesare!" di Joel e Ethan Coen. Universal Pictures International Italy

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Personaggio ispirato all’omonimo, illustre predecessore, vero vicepresidente della MGM negli anni Quaranta, Mannix appiana scandali, previene burrasche, forgia l’immagine delle star a seconda delle esigenze produttive della major. Si muove da un teatro di posa all’altro, passando in rassegna le riprese di magniloquenti colossal e inciampando ora nelle indomite isterie di una starlette dal florido aspetto da rinascita post-bellica (Scarlett Johansson), ora negli psicodrammi di un eccentrico e sofisticato regista alle prese con un attorucolo di film western, fenomeno nel far roteare il lazo da cowboy ma completamente incapace di relazionarsi con il parlato (Ralph Fiennes e Alden Ehrenreich), ora nella sete di scoop delle rivali gemelle Thacker che, nella doppia intepretazione di una mirabolante Tilda Swinton, omaggiano esplicitamente l’esimia pettegola Hedda Hopper. In tutto ciò, da bravo timorato di Dio, trova il tempo di convocare una riunione con i rappresentanti delle quattro principali religioni del Paese, che sfocia in un esilarante simposio sulla natura di Dio e sull’opportunità della sua rappresentazione visiva.

Credits: Universal Pictures International Italy

Universal Pictures International Italy

In questo scenario di quotidiane rogne si inserisce “Il Futuro”, un gruppo di sceneggiatori comunisti che, capeggiato nientemeno che dal Professor Marcuse, gli rapisce Whitlock sotto gli occhi richiedendo un lauto riscatto; esasperati dalla costante negazione di riconoscimenti professionali e dalle logiche dell’industria cinematografica capitalista, “i comunisti” -definizione che, peraltro, richiama grottesche rimembranze alla memoria di noi peninsulari- cercano di distruggere il nemico dall’interno attraverso la destabilizzazione del Capitol Studio (nomen omen). Le riprese del colossal sono bloccate al loro apice e Mannix si scapicolla alla ricerca di un Whitlock con la sindrome di Stoccolma, l’utile idiota che in questa situazione ci ha preso gusto, e molto.

Sullo sfondo si alternano coreografie acquatiche memori delle meraviglie di Esther Williams, musical con stuoli di laccatissimi marinaretti che ballano il tiptap, surreali apparizioni di sottomarini sovietici. Frances McDormand ci regala un cameo da manuale nei panni della montatrice C.C. Calhoun, novella Isadora che riesce a sopravvivere a un infido foulard.

Channing Tatum in "Ave, Cesare!" di Joel e Ethan Coen. Universal Pictures International Italy

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L’industria cinematografica è omaggiata e fatta a pezzi; le grandi star si trovano a confrontarsi con situazioni esilaranti e improbabili, che le spodestano una volta per tutte dal loro hollywoodiano piedistallo per riporle sul piano della disarmante e farsesca idiozia dell’uomo comune.
La sceneggiatura è forse il punto più debole di Ave, Cesare!: frammentaria e poco coesa, non riesce a donare al film quell’unitarietà che sarebbe fondamentale per non cedere, a tratti, allo sbadiglio sperduto e arrancante. Malgrado ciò, Joel e Ethan Coen creano un’opera di grande ironia e spiccata intelligenza, di quelle che possono emergere solo da abilità assolute e sguardi implacabilmente attenti. Un piatto ricchissimo per ogni cinefilo, che strizza l’occhio ma, di più, sfotte, con un sarcasmo affilato e raffinato che permea ogni sequenza. Un giochetto metacinematografico in cui i fratelli Coen, è evidente, si divertono a omaggiare e dissacrare quel “balsamo per un’umanità stremata” che è il racconto del cinema, con una maestria che, sola, permette di giungere a un sublime demenziale che mai cede alla mediocrità.

TAG: Ave Cesare, cinema, Coen, Golden Age, hollywood, Universal Pictures
CAT: Cinema

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