Ricordo di Paul Vecchiali

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20 Gennaio 2023

Ho conosciuto Paul Vecchiali per caso, in una chat, dieci anni fa. Paul era alla costante ricerca della realtà e nelle chat si fanno incontri di tutti i tipi. Spesso, per uno scrittore o per un cineasta, una chat è una miniera d’ingredienti per una trama, di personaggi per un film, per una commedia, una tragedia, un racconto. Le storie della gente per lui erano un nutrimento, e poi gli piaceva anche scoprire nuovi talenti, nuove amicizie.

Io non potevo credere che in quel momento stavo parlando con Paul Vecchiali, il regista che tanto avevo ammirato per i vari film che avevo visto, in numero limitato in realtà, perché in un’Italia provinciale della sua notevole produzione è passato ben poco.

Quando viaggiavo per il mio lavoro di cantante lirico andavo spesso in Francia e in uno dei miei spostamenti lo andai a trovare dove lui stava, in un luogo incantevole: un piccolo villaggio sulle belle colline sopra Saint-Tropez, in mezzo a una macchia mediterranea a pini d’Aleppo e sughere, dove lui aveva una casa con una micropiscina sul tetto, da cui si vedeva solo il cielo. Poi ci incontrammo altre volte in Italia, a Roma.

L’ospitalità squisita di Paul e del suo compagno Malik furono qualcosa di unico. E ripetei la visita altre volte, quasi un pellegrinaggio, perché andare da Paul era un cammino verso scampoli di consapevolezza ancora superstiti.

Quegli incontri furono molto intensi: chiacchierare con Paul era come attingere a un pozzo di vite vissute e di frammenti del Novecento che poi si connettevano con altri pezzi che in quel momento iniziavano a formare dei mosaici già intuiti, e in quel momento confermati, le cui tessere altrimenti sarebbero rimaste come monadi isolate, scollegate. Si trovavano risposte e dubbi, che implicavano riflessioni. Si passava tanto tempo a guardare film, soprattutto i suoi, che io chiedevo di mostrarmi perché non li avevo mai visti, e ne parlavamo, gli interessava sapere cosa ne pensassi.

Il suo era un cinema al di là di ogni classificazione, denso, pieno di parole, spesso di versi poetici, e Paul ne girava e produceva in continuazione, sempre coinvolgendo i suoi amici, persone che amava e che stimava. Immensi attori e attrici quando lui chiedeva se avessero voluto far parte di un cast accettavano immediatamente, come Hélène Surgère, Danielle Darrieux o Edith Scob, la diva di Franju, icone della sua vita, ed erano sue grandi amiche. Loro foto, di ogni epoca, erano presenze vive nella casa.

La scomparsa di Annie (Girardot), di Hélène, Danielle per lui furono dei vuoti incolmabili di tristezza. E ne parlavamo nei nostri brevi incontri e anche in chat. Il suo mondo era una realtà fatta di affetti, di semplicità, di profondità in questa semplicità, di critica feroce verso lo star system ufficiale, effimero e consumistico. Paul poteva avere amori infuocati e odi viscerali, senza diplomatiche parole, se un film o un romanzo, pur blasonati o ben accolti dalla critica, non gli piacevano, lui lo diceva senza problemi: è un orrore.  Soprattutto, per Paul, le regole, i dogmi, non esistevano. E aveva ragione. Non si può imprigionare un artista, un uomo, in una gabbia.

Per esempio, e questo lo diceva sempre, sebbene lui amasse Renoir, La carrozza d’oro (1952), il film con Anna Magnani, lui pensava fosse un film orrendo, mentre Truffaut riteneva fosse un capolavoro. Eppure a Paul la Magnani piaceva, e anche molto, ma non in quel film.

Nei nostri incontri si parlava di progetti futuri di film, che poi lui scriveva nei dettagli, giorno e notte, e girava sempre con budget minimi. Alcuni me li fece leggere. Spesso la sua bella casa di campagna era il set di alcuni di essi. Gli attori, giovani o maturi, gli dicevano sempre di sì. Forse perché il suo cinema era fuori dagli schemi.

Un giorno mi fece vedere una delle sue ultime creazioni, Nuits blanches sur la jetée, basato su Dostoevskij, ma che nulla aveva a che fare coi film di Visconti e di Bresson, che lui pur riconosceva come eccellenti. Ma era un’altra cosa e lui non voleva mettersi in competizione con loro, voleva dire altro. Devo dire che il film era molto, molto intenso e che, come la maggior parte della sua produzione, era incentrato su dialoghi profondi. Pensate, girato in parte coll’iPhone. La totale assenza di effetti speciali, le inquadrature e i piani sequenza interminabili ovviamente, rendevano i suoi film difficilmente digeribili a un pubblico assuefatto alla velocità, spesso vuota di contenuti, agli stacchi, alla rapidità. Ma quello era il suo linguaggio.

Mi propose, una delle ultime volte che viaggiai in Francia, un ruolo in un film totalmente musicale che lui aveva scritto e che voleva girare di lì a poco, Le Jour du Seigneur, e pensava a vari attori del suo giro, come a Danielle Darrieux, o Arielle Dombasle. Io avrei dovuto interpretare il ruolo della guardia campestre. Era ambientato in tempi di guerra, sulla costa francese del sud, precisamente a Ramatuelle: la cacciata dei nazisti da parte delle Forze Francesi dell’Interno. Avrebbe dovuto essere girato in un unico piano sequenza per un’ora e mezza! Una specie di opera lirica in film con musica originale che lui voleva chiedere di comporre a Roland Vincent (autore di una delle canzoni più famose degli anni 70, Wight is Wight in italiano L’isola di Wight), che aveva spesso curato le sue colonne sonore e con cui era continuamente in contatto. Un progetto visionario, un’utopia. E avrebbe tanto voluto girarlo quel film che, purtroppo, non realizzò. Il mélo era una delle sue cifre distintive, ma era un mélo totalmente personale, profondo, pieno di drammi stratificati, di erotismo non convenzionale, di tragedie trattate con ironia e disincanto, basti pensare a EncoreOnce more (1988), forse uno dei suoi titoli più celebri.

Io, di lì a poco, abbandonai la carriera di cantante per sopraggiunti problemi di salute e di deambulazione: Paul, non potrò correre nel bosco e cantare, gli dissi, come prevedeva il copione. Lui se ne dispiacque molto, preoccupato per la mia salute e dispiaciuto per il ruolo che aveva pensato per la mia fisicità. E il progetto, purtroppo, si arenò anche per difficoltà di reperire finanziamenti, e lui era Vecchiali.

Paul era inarrestabile, anche perché la sua voglia di produrre era inesauribile. Diceva sempre ai giovani che volevano fare i cineasti: se avete un’idea, fate, realizzatela, anche con mezzi assai ristretti, non ha importanza. Lui d’altro canto scriveva le sue sceneggiature, faceva il regista, l’attore, il montatore, sempre coll’assistenza del suo affezionato Malik, quasi sempre da solo o con pochissimi collaboratori. E i suoi ultimi film, sebbene poveri in quanto a scene, costumi ed effetti, avevano sempre qualcosa che altri più scintillanti dell’industria cinematografica non parevano possedere, ossia la passione per il cinema, la passione per la parola.

Purtroppo non vidi più Paul per i problemi personali della mia vita e il mio trasferimento alla periferia dell’Europa ma seguivo sempre a distanza le cose che faceva. Poi la pandemia fece il resto, separando pezzi di mondo.

La sua scomparsa, due giorni fa, lascia in me da una parte un vuoto, perché io ho goduto di un tempo limitato per poterlo conoscere, essendo lui già anziano, ma un pieno dall’altra perché, seppur per brevi frammenti temporali, ho potuto beneficiare di questa forte amicizia e di ampie dosi di sapienza. Certamente lascia anche un pieno colle sue opere, pietre miliari contro le regole.

Sit tibi terra levis, Paul.

 

TAG: Danielle Darrieux, Edith Scob, Hélène Surgère, Paul Vecchiali
CAT: Cinema

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