L’esperimento del Primavera Sound, come tenere un concerto in sicurezza


Werewolves on Wheels (1968), i lupi mannari sulle ruote, le belve in motocicletta, ovvero una generazione imbestialita che vaga e non conosce la meta, non ha obbiettivi. Emblematica e suggestiva, in questo senso, una delle ultime sequenze del film di Michel Levesque: i motociclisti, dopo aver attraversato un misterioso banco di polvere (o nebbia?) si trovano magicamente e fisicamente trasportati in mezzo al deserto. Non c’è spiegazione, se non quella di giustificare lo smarrimento attraverso un percorso simbolico che inizia dopo che i nostri hanno avuto un non molto piacevole incontro con una setta di monaci satanisti.
È già in atto il processo post ’68 in un’America che è inconsapevole di quello che sta vivendo e recentissimamente ha vissuto. Il deserto quindi si paragona all’aridità del mondo, tentando chiaramente di rappresentare l’incapacità di accogliere l’ideologicamente diverso. Ciò che però più colpisce – seppur nell’educata rozzezza della messa in scena – è il contrapporsi delle due fazioni: da una parte i motociclisti, dall’altra i satanisti. I primi imbarbariti, liberi, scomposti, materialmente presenti, ma mentalmente assenti; i secondi posati, costretti, formalmente impostati, astrattamente vivi in ogni luogo. Satana contro Satana, direbbe qualcuno. L’orrore in realtà è latente, ma se si pensa al fatto che molti dei film americani a sfondo demoniaco di quel periodo sono in realtà simili come impostazione (proviamo a ricordare pellicole come The Mephisto Waltz o The Possession of Joel Delaney), allora i conti tornano.
Werewolves on Wheels non è certamente uno dei film decisivi di quel decennio, ma aggiunge un ulteriore piccolo tassello sulla mappa che ci mostra come siano vaste le zone figurali del cinema horror statunitense.
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