La mamma di Baltimora rischia di farci dimenticare il contesto

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29 Aprile 2015

La mamma è sempre la mamma. Anche qualche campagna pubblicitaria su prodotti alimentari mi pare abbia incentrato il messaggio sul ruolo: evviva la mamma.

Sullo slancio di questo sentimento nazional-popolare che dalla notte dei tempi ci accompagna, il “popolo del web” -vale a dire quella larghissima fetta di mondo che ha duplicato online le proprie idee, azioni, pulsioni e speranze- si è ritrovato allegramente intenerito dalla mamma afro di Baltimora che “le suona” al proprio discolo pischello, mentre incappucciato si prepara a partecipare alla rivolta cittadina.

Fin qui nulla di male, e nulla che stoni con la nostra rigida morale pasciuta sotto l’etica del bravo figlio che non arreca dispiaceri o al massimo della variante dallo slogan mammasonounribelle: la mamma è mamma per tutti, bravi criminali, cattivi poliziotti, medici, studenti, politici, preti. La mamma ha sempre ragione.

Resta il fatto che quel tumulto da cui la donna strappa a suon di schiaffoni il proprio figlio è a sua volta figlio – il tumulto- di una tragedia. Freddy Gray, 25 enne afroamericano, è morto in ospedale circa una settimana dopo il suo arresto, avvenuto lo scorso 12 aprile, in seguito a gravi torture subite dalla polizia di Baltimora che gli hanno comportato lesioni alle vertebre cervicali. C’è anche un video a documentare gli attimi in cui Gray viene scaraventato dai poliziotti in un furgone per il trasporto prigionieri, mentre le autorità non hanno ancora fornito una motivazione per l’arresto del giovane:

Quando Gray è stato portato nel furgone della polizia -così si legge su ilJournal- ammanettato, il ragazzo 25enne non indossava la cintura di sicurezza e quindi il collo gli si sarebbe spezzato, secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, che conferma la possibile violazione del protocollo da parte delle forze dell’ordine in servizio. Sei agenti coinvolti nell’incidente infatti sono stati sospesi. La polizia di Baltimora ha dichiarato di avere sempre rispettato la procedura delle cinture di sicurezza durante il trasporto dei prigionieri, ma si è rifiutata di diffondere foto del furgone che trasportava Gray

Dopo le prime ricostruzioni sembra che il furgone abbia compiuto il tragitto dal luogo del fermo verso la stazione di polizia di West Baltimore in circa 40 minuti, fermandosi due volte lungo il percorso,e che il tempo di percorrenza fosse inusualmente troppo lungo, calcolando la scarsa distanza tra i due luoghi.

La città di Baltimora è nota per l’alto tasso di criminalità e violenza che la caratterizza, oltretutto vede una maggioranza di popolazione afroamericana “amministrata” dalla polizia a maggioranza bianca: in poche parole, una polveriera.  D’altronde a leggere le recensioni della serie tv The Wire pare abbiano già sdoganato ai più la realtà dell’assurdo, spacciandola per spettacolo e mantenendola, da buoni artisti, al confine tra la tortuosa realtà e la concreta finzione.

Il Baltimore Sun, spiegando le dinamiche e le circostanze dell’arresto e tentando di acclarare i punti oscuri, offre un approfondimento metropolitano decisamente suggestivo:

Perché Gray è scappato? Era stato arrestato un certo numero di volte in passato in relazione al possesso di piccoli quantitativi di droga e ad altri reati di poco conto, come essere in possesso di “carte da gioco, dadi.” Questo lo rende una persona cattiva, un personaggio pericoloso? I suoi amici e vicini di casa dicono di no. Quello che fa lui è fin troppo tipico in un quartiere dove generazioni di povertà schiacciante e guerra di droga si combinano per derubare innumerevoli giovani come lui di opportunità significative. 

e ancora:

Il quartiere in cui viveva, Sandtown-Winchester, recentemente ha fatto notizia come la zona che ospita più detenuti nel sistema penitenziario del Maryland rispetto a qualsiasi altro quartiere. Ma non è la sua unica particolarità. Quattro anni fa, il Dipartimento di Salute di Baltimora ha pubblicato un profilo  di quel quartiere e anche in una città -come Baltimora, ndr – dove la povertà è diffusa, quel quartiere si distingue. Il tasso di disoccupazione è circa il doppio della media in tutta la città, e lo è anche il tasso di povertà. Allo stesso modo, ci sono circa il doppio di negozi di liquori e punti vendita di tabacco pro capite in Sandtown-Winchester rispetto alla città nel suo complesso.

 

Lasciando l’urbanistica di Baltimora e tornando ai tumulti, si può tranquillamente intuire quale e quanta rabbia possa dominarli. O meglio, la rabbia è un sentimento e non un’azione, dunque per essere intuita o compresa forse va empatizzata e metabolizzata, va condivisa. La vicenda è molto grave e lo testimonia il fatto che la notizia abbia fatto rapidamente il giro del mondo, quando episodi simili che -purtroppo- caratterizzano la quotidianità statunitense e non solo, non vengono messi in risalto con la dovuta enfasi.

La fiamma della violenza “razziale” negli Stati Uniti non si è ancora spenta, anzi troppo spesso notiamo quanto il fuoco abbia preso piede anche da queste parti. Poi ovvio, si celebra Martin Luther King, si ricorda Rose Parks, si marcia a Selma, si inneggia alla non violenza e non si parla mai di violenza, non la si teorizza mai, non si contempla mai la violenza come risposta. Mai dal basso verso l’alto, quantomeno. Forse è per questo che Malcolm X non viene ricordato come il reverendo King, forse è per questo che di violenza non si ragiona, ma la si preferisce usare. Ecco quindi la mamma conservatrice di Baltimora, l’idolo della moralità politica che a sua volta si fa scudo delle -legittime- paure di una madre per convogliare il messaggio del non si fa, monello. Non importa se la mamma sia spinta da un primordiale istinto di protezione e che spieghi di “non volere che il figlio diventi Freddie Gray”, non importa se anche questa motivazione (“i figli degli altri sempre al posto del mio”) andrebbe forse rivista per trovare tutti i limiti dell’uomo (a)sociale, è il risultato che conta.

 

 

E il risultato in effetti è molteplice: da un lato si scredita la protesta inquadrandola come violenza malvagia, a cui si contrappongono gli schiaffi a fin di bene della mamma. Dall’altro, la si scredita da un punto di vista anagrafico: come a trasformare la rabbia grezza di una comunità in una stregua di bambocci annoiati. Molto spesso le opposizioni e le dicotomie -necessarie per creare qualsiasi forma di autogiustificazione – sembrano procedere silenziose e invisibili: da un lato la Mamma, il Bene per antonomasia, il pranzo al sacco, il letto pronto, le ramanzine. Dall’altra l’Odio, il Male per antonomasia, ciò che conduce i nostri ragazzi sulla via della perdizione: la violenza.

C’è qualcosa che non torna, comunque. Se il bene è la madre e il male è la violenza, che cos’è la violenza della madre? Violenza del bene?

Evidentemente questa è la percezione, estraendo il video dal contesto. Perché se vogliamo – o veniamo costretti- a quantificare i fatti di Baltimora da un filmato “trasversale”, in quello stesso filmato possiamo notare come la violenza materna abbia lo spazio per raccogliere le proprie motivazioni – il figlio incappucciato e facinoroso, l’atmosfera tesa- contrariamente alla violenza maligna da cui il figliol prodigo viene salvato. Violenza che, essendo malvagia a prescindere, non ha bisogno di motivazioni particolari. A meno che non venga una mamma a ricordarcelo.

TAG: afroamericani, Baltimora, Freddie Gray, razzismo, usa, video virale
CAT: costumi sociali, Media

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