L’omosessualità nell’antica Grecia

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27 Giugno 2015

Secondo un’opinione diffusa, l’omosessualità è arrivata nell’antica Grecia con la discesa dei dori, nell’undicesimo secolo prima di Cristo, ed era quindi ignota alla precedente cultura acheo-micenea. I documenti micenei, decifrati solo nella scrittura lineare B, sono però solo testimonianze fiscali ed economiche, che mai si aprono alla sfera privata e intima e non possono confermare l’assenza dell’omoerotismo. Non si può inoltre ignorare che il patrimonio mitologico, figlio del mondo culturale miceneo, è ricco di esempi di amori omosessuali divini: Zeus e il coppiere Ganimede, Apollo e Giacinto, Poseidone e Pelope. Gli stessi eroi omerici, paradigmi di virilità e esempi di forza maschia, non sono estranei all’amore omosessuale: il rapporto tra Achille e Patroclo è un’amicizia affettivamente intensa, considerata amorosa sia da Platone che da Eschilo.

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Anche per la civiltà minoica di Creta, antecedente all’arrivo dei dori, esistono testimonianze, fornite da Strabone, di uomini adulti che rapivano gli adolescenti amati per portarli fuori città, dove restavano per due mesi in un rapporto regolamentato da apposite leggi. Far coincidere l’arrivo dei dori (comunemente visti come causa di regresso per la civiltà greca) con l’introduzione della pratica omosessuale, è quindi una forzatura volta a confinare l’omosessualità in una dimensione che non le apparteneva: quella della deviazione e della perversione, conseguenza di un popolo rozzo e poco civile. La considerazione dell’omosessualità era però diversa: per i Greci era una pratica d’élite, destinata solo ai migliori, agli aristocratici.

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A Sparta, scrive Plutarco, i ragazzi a 12 anni erano affidati a degli amanti scelti tra gli uomini adulti migliori e da loro imparavano a diventare degni Spartiati (la classe sociale degli uomini liberi e nobili). Per Platone, gli omosessuali, se uomini, sono “i più virili per natura, hanno un’indole forte, generosa e virile” e per questo da adulti sono i soli che “riescono capaci nelle attività pubbliche”. Solo nel rapporto omosessuale l’uomo greco esprime la sua intelligenza superiore ed è quindi l’unico rapporto che gli permette di migliorarsi. Il rapporto con la donna ha uno scopo esclusivamente biologico e riproduttivo. L’amore omosessuale ha una funzione pedagogica e fa parte dell’esperienza formativa e culturale dei giovani, uomini e donne, ed è perciò  rivolto verso partner più giovani: è più giusto quindi parlare di pederastia. L’amore tra due adulti era visto con poco favore anche se non proibito, proprio perché esule dall’esperienza pedagogica. E proprio in virtù della sua nobiltà, l’amore omosessuale, poteva intercorrere solo tra uomini liberi – a differenza di quello eterosessuale che poteva essere tra libero e schiava.

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Per lo stesso motivo, la prostituzione maschile era punita. L’amore omosessuale era  una scelta di formazione morale e politica. La prostituzione degradava il rapporto riducendo un cittadino a un oggetto. Il cittadino diventava indegno della polis perché si era fatto oggetto di un piacere solo sessuale, escludendo così la componente fondamentale del rapporto: la formazione dell’individuo. Un discorso a parte merita l’omosessualità femminile. L’unica testimonianza rilevante è quella di Saffo, la poetessa greca vissuta a Lesbo tra il VII e il VI secolo a.C. Saffo era maestra del Tiaso, una sorta di “collegio” per ragazze aristocratiche dove si impartiva l’educazione, in grado di trasformarle in buone moglie e brave madri.  Saffo insegnava alle sue allieve le leggi dell’amore, la raffinatezza, la grazia, l’eleganza di espressione e le armi della seduzione e del fascino.

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L’esperienza non si esauriva però nell’insegnamento: il Tiaso era una vera e propria associazione religiosa, devota ad Afrodite, con riti e cerimonie proprie e il rapporto tra maestra e discepola contemplava spesso l’ambito erotico. Il ruolo dell’omosessualità femminile sembrerebbe simile a quello maschile: una esperienza di insegnamento a tutto tondo destinata a chi si preparava ad essere un buon cittadino rispettoso del suo ruolo. Questo valore formativo è testimoniato da Plutarco: a Sparta le donne migliori amavano le ragazze e, se capitava che più donne amassero la stessa fanciulla, cercavano insieme di rendere migliore la loro amata. Le poesie di Saffo offrono però uno spunto diverso: sono componimenti rivolti a singole ragazze, non al a gruppo, a testimonianza della destinazione particolare della sua attenzione; le poesie sono dichiarazioni di amore e gelosia, contemplano sfere amorose, indagano le reazioni dell’animo preso dalla passione, e poco o nulla conservano dell’aspetto pedagogico: “Rapita nello specchio dei tuoi occhi respiro il tuo respiro. E vivo.”, scriveva Saffo.

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È chiaro che il rapporto con la sua allieva era sconfinato in un innamoramento manifesto. Il Tiaso non era, quindi, solo un collegio destinato alla crescita dell’individuo culturalmente, ma anche un vero momento di incontro individuale e concreto dove trova posto il coinvolgimento affettivo ed erotico reale, non solo calato nell’aspetto pedagogico. L’idea di un’omosessualità femminile con destinazione esclusivamente culturale è probabilmente una costruzione postuma sul modello maschile, frutto della censura medievale che ha consegnato la poesia saffica all’oblio. Il ruolo dell’amore omosessuale femminile è verosimilmente quello individuato da Dover: “una controcultura” in cui le donne si davano reciprocamente ciò che gli uomini non davano loro.

 

Veronica Iorio

 

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TAG: antica grecia, Aristotele, omosessualità, pederastia, platone, saffo
CAT: costumi sociali, Storia

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