Il razzismo e l’immobilità della politica

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4 Febbraio 2022

L’attrice Lorena Cesarini, durante la seconda puntata del Festival di Sanremo, ha raccontato come sia stata oggetto di offese sui social per il colore della sua pelle quando è stata scelta da Amadeus nella conduzione della serata della festa della canzone italiana. Tra le lacrime versate per l’aggressione subita e per la fierezza di avere avuto uno spazio di parola per denunciare, ha letto frasi che attestano quanto ancora viviamo in un medioevo che fa della razza una questione ancora aperta e capace di sobillare gli istinti e pulsioni animalesche: “Non se lo merita, l’hanno chiamata lì perché nera”, “È arrivata l’extracomunitaria”.

Siamo una società razzista e il nostro razzismo è più della semplice discriminazione del colore della pelle. Siamo razzisti verso il diverso, verso chi non si conforma con i canoni dettati dalla società perché liberamente sceglie di opporsi non allineandosi ai valori dettati dalle élite che dettano mode e bisogni indotti, o perché a quei canoni non può conformarsi in quanto è fuori da ogni schema sociale. Sono i perdenti, quelli che nessuno guarda e considera, arredo in disuso considerato ingombrante perché non produce: lo storpio, chi è privo di istruzione, l’indigente. Nella società vittoriana il Poor Laws Amendement Act del 1834 istituì le famose workhouses, gli ospizi dei poveri. Queste erano degli istituti dove in teoria si accoglievano e accudivano gli indigenti, gli orfani e chi era in difficoltà. Nei fatti, però, erano luoghi volutamente inospitali e difficili, perché si voleva spronare i bisognosi a cercare un lavoro per poter lasciare l’istituto e non contare su un sistema assistenziale, cioè usufruire delle workhouses era considerato parassitario, atteggiamento che si scoraggiava il più possibile. Il parassitismo da “para” presso e “sitos” alimento, è un fenomeno che rientra nel più generale rapporto di simbiosi: solo che di rado l’organismo ospite trae beneficio dalla presenza del parassita.

Viviamo in un mondo che è poco ospitale verso colui da cui non può trarre beneficio, in cui la quantità di danaro posseduta è sinonimo di valore di una persona. Una persona pesa in società tanto quanto è capace attraverso la sua influenza, cioè il volume delle sue proprietà e possedimenti, di acquistare, vendere, contrattare. È detentore di potere proprio in virtù della sua facoltà economica. Una situazione sclerotizzata, mentre la politica non sembra voler vestire i panni del cambiamento.

Dopo una settimana in cui siamo stati col fiato sospeso nell’attesa di conoscere il nuovo Presidente, di nuovo non si è verificato proprio nulla. Mattarella è nuovamente Presidente, viene rinnovato il suo mandato. Sicuramente è un ottimo servitore dello stato, una persona che fa dell’abnegazione e dell’onestà sue precipue doti civili, e nel discorso breve, ma incisivo in cui ha ringraziato per la rinnovata nomina ha affermato che avrebbe anteposto le esigenze del Parlamento alle aspettative personali.

La rinnovata fiducia in un Presidente che si è mostrato all’altezza del suo compito, sottolinea la mancanza di soluzioni di un Italia che per togliersi da una situazione di stallo, mostra poca fantasia e costringe un uomo che forse avrebbe voluto trascorrere gli ultimi anni della sua vecchiaia godendosi un po’ di pace e tranquillità a un lavoro impegnativo.
Ciò mostra una incapacità della politica di rinnovarsi, la volontà di essere ancorata al già conosciuto, la poca volontà a sperimentare il nuovo.

In effetti di giovani in politica ce ne sono ben pochi, la politica probabilmente appassiona poco o per niente, si è ridotta a tribune elettorali, a beghe di palazzo, non infiamma più. Forse per la mancanza di persone che incarnano valori vicini al sentire dei cittadini, forse perché è percepita distante, forse perché sembra ormai più roba da show televisivi che roba seria.
Pensiamo alla scuola, si dibatte in continuo della responsabilità che la scuola ha nello sviluppo dei nuovi adulti e futuri cittadini, ogni nuovo problema sociale sembra investire la scuola che deve porre rimedio, arginare nuovi fenomeni, preparare alle sfide del futuro.

La scuola deve educare, il che vuol dire non solo informare, ma formare, e ogni novo governo che si è alternato al potere ha messo mano a qualche riforma provocando spesso disorientamento per le disposizioni mai in continuità con ciò che lo precedeva. Ma tranne che nella terminologia, e qualche lieve modifica, non c’è stata mai una riforma rilevante in grado di rendere la scuola all’altezza del compito cui è stata chiamata. Gli arredi scolastici sono sempre gli stessi, le classi non sono sempre attrezzate per combattere il freddo o il caldo, tranne un palestra spazio condiviso da una scuola intera, non ci sono altri luoghi di svago. Sensibilizzare ai valori di solidarietà, uguaglianza, rispetto dell’altro, cooperazione, è un lavoro che si svolge nelle classi e sta all’insegnante proporre esperienze in cui tali valori vengono messi in pratica. Mancano, in realtà, esperienze esterne che cementano quanto già imparano a scuola.

Oggi i modelli dei ragazzi sono i cantanti, o personaggi che seguono su instagram, non certamente un politico. La politica risulta noiosa, verbosa, e soprattutto capace di difendere solo interessi personali. Interessi delle classi privilegiate, non vicini ai problemi del cittadino che si trova in difficoltà economiche, lontano dai giovani che spesso devono lasciare la loro terra d’origine per poter trovare un impiego, e i fortunati che riescono nell’impresa sono costretti ad essere sfruttati per delle paghe misere. Spesso ci si è lamentato che il reddito di cittadinanza abbia demotivato tanti giovani che hanno rifiutato un lavoro perché percettori di aiuti statali. Tutto ciò accade perché i giovani sono stanchi di piegare il capo dinanzi a lavori malpagati, ore di lavoro straordinarie non dichiarate, privi di contratti che li tutela, lavori per lo più temporanei che non consente loro una formazione.

Dinanzi ad aspettative di vita tradite, la politica non è percepita, sembra un circo messo su per riempire palinsesti televisivi, le parole dei politici sembrano vuote come i loro progetti irrealizzati. La politica parla spesso di un’economia di un Paese che non li riguarda perché continua a privilegiare gli interessi dei soliti ceti benestanti, e che non offre occasione ai figli di nessuno. Se il potere deve assegnarsi al merito, sarà sempre distribuito ad excludendum. Sarà un fattore di disuguaglianze e mai di equità. Se non tutti possono fare i politici, allora quel regime politico che definiamo democrazia sarà solo fittizio, nominale. Certo i cinque stelle ci hanno mostrato che poteva esserci una via alternativa, che l’umo di strada poteva, se motivato, interessato, appassionato, farsi largo tra i soliti volti della politica, ma non hanno saputo spezzare le catene da un leader che espelle dal partito quando non si è in linea con i principi guida del movimento, che agisce come un gerarca e che, governando i sentimenti di astio dei cittadini nei confronti della vecchia politica, ha alimentato il populismo che si oppone alle élites.

Un leader che non riconosce la funzione della democrazia rappresentativa, uno strumento creato per disinnescare la possibilità che l’esercizio del governo fosse sostituito dall’interesse del più forte attraverso i diritti umani. La democrazia rappresentativa è riuscita nel miracoloso intento di rendere il governo luogo di incontro di interessi. Nelle democrazie rappresentative governare non è lo stesso che svolgere un ruolo d’opposizione. Quest’ultima funzione non prevede alcuna mediazione, mentre governare è un esercizio necessario di mediazione tra interessi legittimi.

TAG: politica
CAT: discriminazioni, Governo

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