Utopie realizzabili: l’importanza di conquistare un reddito di base universale

16 Ottobre 2021

“Cosa faresti se ogni mese lo Stato ti versasse un reddito mensile, una cifra al mese dignitosa, senza condizioni né obblighi di lavoro, sul tuo conto corrente personale?”

Qualche tempo fa, alcuni intervistatori hanno posto la domanda a una serie di cittadini tedeschi,  chiedendo un’opinione in merito alla possibilità di istituire un reddito di base per ogni persona. Un reddito universale, per ricchi e poveri indistintamente, individuale, da non versare su base familiare ma a ogni residente in un Paese, e incondizionato, cioè non legato a obblighi di lavoro.

Di questa proposta politica si è discusso ampiamente durante la tavola rotonda organizzata dagli Invisibili in movimento/Stati Popolari l’8 ottobre scorso, ospitata dalla Fondazione Casa della Carità diretta da don Virginio Colmegna. Chi scrive ha avuto il piacere di moderare la discussione, cui hanno preso parte Philippe Van Parijs, economista e filosofo ideatore del reddito di base, il Senior Economist della Banca Mondiale Ugo Gentilini, la filosofa Maura Gancitano, il portavoce degli Invisibili in movimento Aboubakar Soumahoro e Sandro Gobetti, ricercatore e rappresentante della rete Basic Income Italia: proprio Gobetti, durante il suo intervento, ha svelato gli interessanti risultati delle interviste svolte in Germania, dove è in atto, al momento, una sperimentazione del reddito di base.

All’inizio – ha raccontato – le persone interpellate dagli intervistatori storcevano il naso pensando alla proposta in modo genericamente politico. L’associazione mentale più immediata era quella con la pigrizia: “Le persone passerebbero le giornate sul divano a non fare niente! Nessuno avrebbe più la spinta a impegnarsi su nulla!”. Ma nel momento in cui veniva chiesto loro cosa avrebbero fatto individualmente, avendo a disposizione quel reddito nella propria vita, le idee e i progetti rimasti nel cassetto all’improvviso fioccavano. “Mi dedicherei al mio sogno di musicista!” o “Tornerei a studiare quell’argomento che non ho mai potuto approfondire”, o ancora “Mi dedicherei di più ai miei figli”, o ai nipoti, o alla propria salute psico-fisica.

Aboubakar Soumahoro, Maura Gancitano e Don Virginio Colmegna durante un momento del dibattito sul Reddito di base, 8 ottobre 2021 (foto: Gianmarco Carrieri)

Lo stigma da superare
Ci sono tanti sogni e bisogni, progetti e speranze nella vita di ognuno di noi, e il denaro dovrebbe essere lo “strumento generativo”, sottolineava Maura Gancitano durante il dibattito, che ci consente di realizzare individualmente i nostri bisogni, ma che viene anche concepito come una risorsa pubblica, grazie alla quale consentire la partecipazione ampia e differenziata di ogni persona al discorso politico. A questa visione generativa, purtroppo, la politica ma anche la società tendono ancora a fare resistenza. L’idea del reddito di base universale scoperchia tanti tabù del nostro tempo: tabù legati ai soldi, a un’ideologia malsana del lavoro, ma anche alla rassegnazione che attraversa le persone in quest’epoca: abbiamo rinunciato ai sogni, e abbiamo rinunciato all’idea che le istituzioni, attraverso la politica, possano o addirittura debbano farsi carico di una vita degna in cui per ogni essere umano ci sia spazio anche per realizzare i suoi sogni. La povertà è diventata un peso individuale, non più un problema sociale.

Eppure, spiegava il portavoce degli Invisibili in movimento Aboubakar Soumahoro durante la serata, “l’articolo 3 della Costituzione italiana parla esplicitamente di questo: di rimuovere gli ostacoli che limitano lo sviluppo della persona umana”. E fra questi ostacoli, nel tempo presente, c’è sicuramente il denaro. Non solo per le persone – 5,6 milioni di italiani secondo le ultime rilevazioni ISTAT – che vivono in povertà, ma per tutte quelle che lavorano in condizioni di precarietà divenuta ormai strutturale, o di semi-schiavitù permanente. Il presidente dell’INPS Pasquale Tridico (invitato al dibattito ma all’ultimo, momento bloccato da un impegno istituzionale) ha dichiarato in una recente intervista che 2 milioni di lavoratori guadagnano meno di 6 euro lordi l’ora. Di questi, una fetta importantissima è costituita da giovani e donne. Come fare a coltivare lo spazio dei propri sogni, se il lavoro precario e malpagato, e se la povertà, con lo stigma che si porta dietro, schiacciano così tanto le nostre vite?

L’economista e filosofo Philippe Van Parjis ha dedicato tutto il suo impegno, negli ultimi 40 anni, a cercare una risposta a questa domanda. Una risposta “radicale ma ragionevole”, come spiega nel suo libro edito da Il Mulino e come illustrava nel suo intervento, per far sì che un utilizzo intelligente dei soldi da parte delle istituzioni statali diventi finalmente “uno strumento di libertà” per ogni persona. Questo strumento funzionerebbe, secondo Van Parjis, solo a condizione di svincolarsi da ogni forma di assistenzialismo solidaristico paternalista: non dovrebbe trattarsi di soldi da dare soltanto alle fasce più povere, né da vincolare alla ricerca di un lavoro o al dover dimostrare di continuare a essere poveri. Tutti questi lacci, infatti, oltre a conservare lo stigma sociale della povertà e la vergogna che esso porta con sé, alimenterebbero, come già avviene, anche forme di economia parassitaria basata su un lavoro di scarsa qualità, pagato pochissimo o in nero, allo scopo di non perdere i sussidi. Svincolare il reddito di base da questa visione sussidiaria – che tuttora permane, invece, nell’applicazione legislativa concreta del reddito di cittadinanza italiano – significherebbe non sentire più pressioni ad accettare lavori di scarsa qualità, aumentare il proprio potere negoziale. Perché farsi pagare di meno, infatti, se non si è obbligati ad accettare quelle condizioni, se si ha l’agio di poter rifiutare?

Lo “zoccolo”, come lo chiama Van Parijs, di serenità economica rappresentato dal reddito di base, potrebbe costituire una liberazione dalla ricattabilità. Per le donne, in particolare, si tratterebbe di una rivoluzione. Come ricordava Gancitano durante il dibattito, in Italia oggi tre donne su dieci non hanno un proprio conto corrente ma si appoggiano a quello del marito o familiare. La disoccupazione – è emerso in modo contundente a seguito della pandemia – è soprattutto disoccupazione femminile, e la combinazione fra subordinazione economica dentro il nucleo familiare e subordinazione economica a livello sociale genera per tantissime donne situazioni di abuso e violenza. Un reddito di base individuale, per molte, significherebbe possedere una base in più di serenità per potersene sottrarre, separandosi e allontanandosi dal nucleo familiare; ma sarebbe anche – spiega bene Van Parjis nelle sue ricerche – una importante possibilità di de-mercificazione di sé, che aiuterebbe, per esempio, tutte (e tutti) coloro che lo desiderano a uscire dalla prostituzione, per esempio, o dal mercato della pornografia, che da sempre prosperano sulla deumanizzazione delle donne, così come degli immigrati e dei bambini.

Chi pagherebbe il reddito di base?
La varietà di sperimentazioni e ricerche in corso in questi anni in tanti luoghi diversi del mondo, spiegava Ugo Gentilini della Banca Mondiale che ha curato un importante dossier di ricerca sul reddito di base per conto della sua istituzione, contribuisce a desacralizzare l’argomento e a renderlo un po’ meno tabù. Se un’istituzione come la World Bank se ne interessa, è perché sperimentazioni e tentativi di applicazione di forme di redditualità universale sono ormai numerose, diversificate, e pienamente concrete. La pandemia in particolare, ricordava Gentilini, ha comportato la messa in campo di misure di natura universale in numerosi Paesi, per ovviare a situazioni di emergenza contingenti, ma con la possibilità di ricavarne spunti e idee anche oltre l’emergenza.

La reperibilità delle risorse, sostengono i ricercatori del Basic Income Network, è in realtà un falso problema. La ricchezza sul Pianeta è sovrabbondante, il nodo critico non sta nella scarsità delle risorse, ma nella profonda iniquità della loro distribuzione. Il fatto che le più grandi multinazionali produttrici di profitto al mondo – da Facebook a Apple, ad Amazon a Google  – non versino le tasse sul profitto che realizzano nel Paese in cui lo realizzano, significa che ci sono decine di miliardi di euro distratti dalle casse degli Stati che forse basterebbero da soli, rifletteva Gobetti, a finanziare un reddito di base universale in questo Paese.

La sostenibilità che non è ancora stata sufficientemente fondata non è tanto quella economica, quanto quella politica. Lavorare per “un’economia al servizio delle persone, e non viceversa”, come sosteneva Cecilia Magarotto, attivista degli Invisibili in movimento, in apertura del dibattito, è il nodo cruciale per far sì che un’idea rivoluzionaria, semplice, praticabile come quella del reddito di base individuale, universale e incondizionato possa migliorare le vite di ciascuno. È necessario allo scopo cambiare il paradigma culturale, infrangere quello ingannevolmente meritocratico che si è affermato negli ultimi decenni, che fonda la gloria della ricchezza tutta sulla minaccia, e la colpa, della povertà, e affermare un nuovo paradigma della dignità umana che renda il denaro un mezzo creativo per ottenere un fine: vivere meglio tutti, vivere meglio insieme.

La sensibilità fra le persone sta crescendo, in questo senso. La petizione lanciata dal Basic Income Network per chiedere all’UE di finanziare un programma di messa in pratica del reddito di base a livello europeo ha già ottenuto 150mila firme. Quando saranno un milione, la proposta di legge che l’accompagna sarà presentata in forma ufficiale alla Commissione Europea.

TAG: Aboubakar Soumahoro, povertà, Reddito di base, reddito di cittadinanza
CAT: economia sommersa, Teoria Economica

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...