Politiche attive del lavoro: neocentralismo o disinteresse?
Il tema, va specificato, è di quelli non “notiziabili”. Un direttore o un giornalista, in proposito, alzano un sopracciglio e ti dicono: “qualche cifra? Qualche storia?”. Questo stimolerebbe riflessioni su ciò che nel nostro paese è oggi “notiziabile” (parola che il correttore automatico si rifiuta di accettare), ma transeat.
E, si sa, se un argomento non è pubblicabile, non stuzzica la politica che, di conseguenza, non se ne interessa, eventualmente fino a che scoppi un problema da gestire; regola numero uno: le grane, meglio non cercarsele. In effetti sembra che parlare di lavoro qui significhi solamente fare derby con scontri in curva attorno all’articolo 18, a mesi alterni, per riempire di urla spazi tra un blocco pubblicitario e l’altro. Poi, per carità, nella “buona notizia” di Report, andiamo a vedere che cosa fanno in Scandinavia e a Monaco le splendide agenzie pubbliche (alimentate con l’1% del Pil, e non è notiziabile verificare la quota di spesa italiana) che ricollocano in men che non si dica un ingegnere atomico. E cara grazie. Noi invece, spreconi: il solito sud Europa che attende la Merkel a raddrizzarci la schiena.
La notizia-non-notiziabile è la seguente. Nel corso di dicembre, nell’ambito del processo di revisione costituzionale, la maggioranza ha infilato un emendamento (“blitz” l’hanno chiamato esponenti stessi della maggioranza) che porta alla competenza esclusiva dello Stato le materie di tutela e sicurezza del lavoro e le politiche attive del lavoro. Un provvedimento, in sintesi, che attraverso un percorso inverso ad ogni logica di sussidiarietà, decentramento o federalismo (chiamalo come ti pare a seconda che sia bianco, rosso o verdone), riporta a Roma questa funzione che può non apparire essenziale, ma invece lo è per tale settore. Il momento è di crisi, la disoccupazione è alta, servirebbero efficienti “politiche del lavoro”.
Questa decisione, inoltre, avviene mentre il Jobs Act introduce la figura di una “Agenzia nazionale” il cui ruolo non è ancora ben chiaro. Questa, auspicabilmente, dovrebbe avere funzioni di verifica e valutazione, ma non si fugano i dubbi che le si vogliano ascrivere pure funzioni dirette di gestione a discapito dei territori.
Il governo, in sintesi, starebbe riportando al livello centrale tali prerogative sottraendole alle regioni che le hanno a loro volta delegate alle province. Naturalmente i primi a lagnarsi sono stati i governatori. Chiamparino ha espresso un “parere fortemente contrario”. Maroni, sull’altro versante, dopo un incontro nella Conferenza delle Regioni ha lamentato la “nessuna disponibilità” del governo a ragionare. Ancora più esplicito è stato l’assessore toscano Simoncini, tra l’altro coordinatore del settore Lavoro per le Regioni, che ha denunciato come questa modifica contraddice il percorso che “insieme al ministro” si sta effettuando per la definizione di un “sistema nazionale per il lavoro rispettoso delle competenze” locali.
Il sottotraccia di queste critiche bipartisan è che il trasferimento delle competenze rischierebbe di portarsi a Roma lo zaino di risorse europee che le finanziano: soldi veri. Conseguenza significativa, poi, sarebbe che così facendo si dividerebbero i settori fortemente integrati di politiche attive del lavoro e formazione, per loro natura non scindibili; almeno agli occhi di chi sappia di che si parla.
Naturalmente non è che tutte le Regioni siano esperienze modello in questi settori, anzi. Tuttavia, è ovvio che la programmazione delle politiche attive è necessariamente connessa alle esigenze dei contesti produttivi locali e delle specificità territoriali. E, poi, un confronto con le esperienze europee, evidenzia che il problema italiano non è certo il decentramento delle funzioni, pratica diffusa all’estero, ma la scarsità delle risorse e la mancanza di verifiche, controlli e standard comuni. Plausibile, no?
La centralizzazione, quindi, apre una questione di riallocazione delle funzioni a danno dei territori, e allo stesso tempo, non garantisce la soluzione dei problemi essenziali; di tale tema, da mesi dibattono gli operatori del settore senza che nessuno si interessi di un argomento che, per quanto da sbadigli, non dovrebbe essere così irrilevante ai fini delle politiche di sviluppo.
Prendiamo un caso ad esempio, così per capirci: quello lombardo. Sul primo punto, la decisione che tra l’altro avviene in un momento di contrazione delle risorse a disposizione delle regioni che potrebbero pensare di rifarsi a cascata sui livelli sottoposti, di certo non diminuisce il disordine istituzionale. Basti pensare che lo statuto della città metropolitana milanese, un mesetto fa, al suo articolo 41, intitolato “promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale”, nel punto g) (bando alle ironie), prevede di “mettere a punto politiche attive del lavoro e favorire lo sviluppo del capitale umano, in quanto mezzo di promozione della crescita delle imprese, del benessere e della coesione sociale”. Quindi lo Stato, il giorno dopo che ha creato le città metropolitane, le espropria di funzioni statutarie appena approvate nelle assemblee.
Ma soprattutto diciamo che, anche completamente in astratto, appare un po’ osé che le politiche del lavoro di un’area integrata di 4 milioni di cittadini che producono un bel tot del Pil italiano, passino con una firma dall’ente locale di prossimità alla capitale dell’impero. Milano, sia detto così per inciso, non è propriamente Cesenatico: è dalla fondazione della Società Umanitaria in poi, e su su fino alla creazione di un sistema di scuole civiche che ancora oggi è un’eccellenza, che le politiche attive del lavoro le ha inventate e diffuse nel mondo: ecco la “buona notizia” di Report.
Il sistema del welfare ambrosiano, anzi, un unicum territoriale ovunque studiato, nato dalla fusione dei riformismi laico e cattolico, ha nella formazione e nelle politiche attive del lavoro un perno fondamentale che nel corso di oltre un secolo non ha perso un giro. Sarebbe curioso vedere arrivare in Frecciarossa un funzionario ministeriale da Roma con la cartellina dei progetti sottobraccio.
Naturalmente questi sono temi di nicchia, argomenti tecnici e ostici che sfuggono all’interesse dell’opinione pubblica; non notiziabili, dicevamo. Quindi nessuno fino ad ora ha sentito lo stimolo a prendere la parola pubblicamente o, altrimenti, nella commissione in cui si è alzata la mano per approvare l’emendamento. Magari chiedendosi, en passant, che cosa ne pensavano le votanti comunità locali di quella trascurabile decisione, del resto, per addetti ai lavori.
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