La libertà è reale solo nello Stato
Illustrazione di Federico Monzani
La libertà è reale solo nello Stato diceva Hegel. Cosa vuol dire? Vuol dire che bisogna eliminare tutto ciò che nel concetto di libertà è utopico: non c’è niente di reale fuori dai rapporti di forza che ognuno si trova a vivere tutti i giorni, dalle influenze relazionali, dal potere dei discorsi.
La filosofia di Karl Marx, portatrice di grande ascendente sulle forme mentis, ha la responsabilità di aver perorato la divulgazione del concetto di libertà in forma diadica – di derivazione giusnaturalista e contrattualista ( si pensi a Thomas Hobbes). Da una parte la libertà dell’individuo, tale perché incondizionata; dall’altra, un potere che la limita in una costante lotta fra opposti.
Ma se invece l’unica dimensione reale, concreta, fosse quella dello Stato?
La storia delle idee ci conferma che la concezione di libertà come incondizionata giunge sino a noi attraverso l’onda lunga della tradizione moderna in filosofia costituendo il senso comune: libertà come sogno di liberazione dallo Stato, volontà indipendente da qualsivoglia condizionamento.
Concetto che disgrega, decostruisce e non concepisce ordine sociale alcuno.
L’ordine implica la resa alla “dura superficie delle cose”, al mondo così come è fatto e come esso si impone. Eliminare la dimensione immaginifica necessita maturazione intellettuale e sforzo. Rimane il senso di rassegnazione, che non è piagnisteo: è potenza costruttrice e presa di coscienza di che cos’è il reale. É questo un pensiero forte in filosofia e una propedeutica all’azione.
Allora sì la religione, l’arte, la letteratura e il sesso acquisiscono un valore sacro. Hanno la forza di sospendere il tempo storico, essi sì, sono libertà come fluida indipendenza della volontà.
Qualche settimana fa un caro amico mi disse una frase che continua a risuonarmi in testa: “il pacifista non può concepire l’ordine mondiale e neanche la pace, perché non vive sotto l’usbergo del Leviatano ma sotto quello di Behemoth, il mostro biblico che crea disordine”.
Parole forti che fanno riflettere. In Occidente ha trovato larga diffusione quel modo di pensare la libertà che tende al caos e non al mantenimento dell’ordine. Il ribelle, dico io, non è colui che si emancipa astrattamente dallo Stato ma colui che accettandone l’inevitabilità agisce per renderlo migliore.
La libertà in forma diadica, come lotta tra opposti uno fuori dall’altro (individuo e Stato), alimenta un modo di ragionare ideologico perché esclude la possibilità che le cose siano in modo diverso. Quando invece si sostiene come Giuseppe Duso che “l’unico piano reale è quello dell’insieme dei rapporti all’interno dei quali l’individuo concretamente è sé stesso ed agisce” si diviene pragmatici, modo di essere, tra l’altro, che incarna il tempo presente.
Le ideologie sono ormai tramontate in occidente anche per via dell’aumento costante della complessità, che impedisce al pensiero di afferrare qualsivoglia oggetto (si veda in merito il testo di Kurzweill La singolarità è vicina, consigliatomi qualche mese fa da Paolo Bottazzini mentre si discuteva con il Direttore di questo giornale). La tecnologia sta plasmando il mondo e con esso le categorie che utilizziamo per parlarlo.
Possiamo dunque partire dai concetti, traslarne i significati e cercare di comprendere il nuovo che sta sotto i nostri occhi trovando punti di orientamento per il nostro agire, individuale e collettivo.
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