Essere esseri umani al di fuori della Job description – la Posta del Cigno Nero
Caro Cigno Nero,
Ho letto con molta syn-patheia la lettera di Noemi. Negli anni ottanta sarei stato definito un “top manager”.Mi sono sempre considerato privilegiato e fortunato per il lavoro che faccio, per quello che guadagno e per come posso permettermi di vivere. Questo tuttavia non mi ha impedito di mal sopportare e soffrire alcune situazioni. Da alcuni mesi non mi diverto più a fare il mio lavoro e soffro l’ambiente tossico, quindi sto cercando di cambiare datore di lavoro. Ma non è una cosa semplice. Ho successo durante i processi di selezione, mi ritrovo molte volte in una “short-list”, però poi c’è sempre qualcuno più bravo o qualificato di me, e mi sento dire “non ti possiamo prendere perchè sei troppo caro”. Eppure sarei disposto a guadagnare meno per tornare a divertirmi e ad avere maggiore serenità. Ebbene, questo semplice concetto risulta inconcepibile per le aziende ed i loro dipartimenti di cosiddette “Risorse Umane”. L’assunto è: se ti assumiamo a meno di quello che guadagni prima o poi te ne andrai per ri-guadagnare di più.
Quanto ci vorrà a capire che i candidati sono prima di tutto donne o uomini con un corteo di sentimenti, legami, aspirazioni e desideri estranei alla “job description” e al lavoro che dovranno fare e che tutto questo influenzerà il loro modo di lavorare ed essere manager, direttori o vice-presidenti?
Perché è così difficile capire che l’essere umano nasce e si forma prima del professionista e ne influenzerà sempre il modo di essere e quindi di lavorare?
A.
Caro A.,
molto è stato scritto sul carattere disumano delle risorse umane, di quanto poco calzante sia la denominazione di questo ambito. Tuttavia basterebbe spostare il focus su “risorsa”, di cui “umane” non sarebbe altro che una sua specificazione, per scoprire che la dicitura è più pertinente di quanto sembri.
Ogni azienda investe su risorse, siano esse concrete, virtuali o di sistema, scegliendo ciò che garantisce performance migliori. Chi è addetto a questo tipo di compito sa leggere i punti di forza e debolezza di ciò che sta comprando, vagliarne l’affidabilità e scartare ciò che, avendo un margine alto di imprevedibilità, comprometterebbe l’investimento. L’aggettivo “umane” sta perciò a indicare semplicemente il caso in cui l’azienda prende in esame una “risorsa-persona”, che ‒ se in quanto umana, ha peculiari specificità e variabili di cui tenere conto ‒ prima di tutto è una risorsa. L’HR sarà certo un professionista nel selezionare questi particolari investimenti che sono gli individui, ma resta la brutalità del suo compito: trattare le persone come fossero “cose”, perché per l’azienda è come capitalizzare su un macchinario, un’applicazione o un fondo di denaro.
L’addetto alle risorse umane si comporta come facciamo tutti quando scegliamo una nuova lavatrice: mette a confronto pregi e difetti di un candidato, prestando particolare attenzione al margine di imprevedibilità, perché il “pacchetto-persona” ha una singolarità tra le tante: non ha anni di garanzia. Non sceglierà dunque un 55enne, che ha più probabilità di ammalarsi e di morire, né una donna, soprattutto se ha superato i trenta e non ha figli, perché presto potrebbe avere il desiderio di diventare mamma, né un candidato reduce da tre lavori negli ultimi sei mesi, perché chissà dove lo porterà ancora la sua testa ballerina.
Insomma, l’addetto alle risorse umane ha una parola d’ordine prima di tutto: semplificare il groviglio che ognuno di noi rappresenta e tradurlo in termini computabili. Ci sembra un’operazione miserabile? Ma in fondo non accettiamo anche noi le stesse regole quando entriamo in scena con lui o lei durante un colloquio, in un gioco delle parti risaputo su entrambi i fronti? Non ci presentiamo al suo cospetto con la verità di ciò che siamo, ma con quella suggeritaci da qualche tutorial su youtube, se non addirittura da un corso di formazione: indossiamo l’abito che ci si aspetta, recitiamo il copione che ci si aspetta, ci mettiamo in viso espressioni precise e cerchiamo di tenere a bada i gesti incontrollabili. Sembra semplice ma non lo è: magari così vestiti ci sentiamo goffi, potrebbe accadere che prendiamo a sudare o arrossire, che le mani si muovano come non dovrebbero, oppure che dalla nostra bocca vengano fuori risposte proibite, intercalari funesti, o peggio ancora un fatale “non lo so”. Non è semplice perché semplici non siamo. Tra inconscio, emotività e libertà, l’imprevedibilità fa parte di noi.
L’HR intanto fa il suo mestiere prevedibile: scarta e promuove, leggendoci con la lente della semplificazione. Allo stesso modo sta prendendo in considerazione te che, essendo abituato a un carburante gold, probabilmente non darai le medesime prestazioni con una miscela più scadente che ti farà rinviare la vacanza caraibica in un resort all inclusive o ridurre la frequenza con cui ti permetti un ristorante stellato. Insomma, la tua vita non avrà più lo stesso tenore cui eri abituato e che ti piaceva. Ergo, la motivazione calerà. Semplice!
I momenti di crisi come quello che vivi, però, dicono che le cose non stanno proprio così, perché senti di funzionare diversamente. Improvvisamente il divertimento nel lavoro ti risulta più motivante rispetto allo stipendio, ma ti accorgi che è un aspetto così soggettivo da non poter essere contemplato dalle risorse umane che conosci bene. Dentro questa crepa si aprono le domande importanti, e forse non sono queste che rivolgi al Cigno Nero, ma quelle tra te e il top manager che sei (o che fai?). Con questo interrogativo tra le parentesi mi riferisco alla mail di Noemi, la stessa con cui esordisci per l’affinità risonante che ti ha suscitato. Eppure lei presentava istanze agli antipodi: è una persona che non sa “chi” essere perché un lavoro non ce l’ha, dunque non è riconoscibile per la società e probabilmente fatica pure a mettere un piatto a tavola la sera; tu invece dichiari subito la tua forte e consolidata identità lavorativa, ma vivi un contesto che non ti diverte più e ti scontri con la difficoltà di trovare una nuova collocazione che tenga conto dell’umano.
Così ti interroghi sul ruolo delle risorse umane, sul perché non considerino il nostro corteo di sentimenti o la nostra complessità. Se invece scendessi un attimo dal treno della carriera, concedendoti un sano momento di ozio ‒ per dirla con Russell ‒ e le domande le ponessi a te stesso? Se ti chiedessi: “Quale posto occupa il lavoro nella mia vita? Sono un top manager o faccio il top manager? C’è ancora gioco tra me e lui?”. Anche se il top manager insabbia le carte puntando il dito sulle Risorse Umane, sembrerebbe ci sia ancora un A. che ha qualcosa da dire e non si è identificato del tutto col ruolo. Forse varrebbe la pena di ascoltarlo. Lontano dal rumore dei binari.
Per Sartre mentiamo a noi stessi quando ci costruiamo un’immagine fasulla del nostro io, che è allo stesso tempo ingannatore e ingannato. Lui chiama “malafede” questa menzogna, che si presenta spesso quando certi maccanismi del lavoro diventano parte di noi. Possiamo essere sempre sicuri della nostra buonafede?
Irene Merlini
Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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Ph. Maria Luisa Petruccelli
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