Per la prima volta dalla riunificazione la Germania aumenterà le spese militari, a partire dal 2017, per carri armati, autoblindi, spendendo di più per manutenzione e acquisti. L’annuncio è stato dato nei giorni scorsi dal ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble d’accordo con la collega alla Difesa Ursula Von Der Leyen. «Ovviamente – ha spiegato il titolare delle Finanze – di fronte alle crisi e alle instabilità del mondo dovremo sostenere nei prossimi anni spese maggiori per la difesa». E così capiterà che i carri armati Leopard 2, anziché scendere da 350 a 225, come voleva il precedente ministro della Difesa Thomas De Maizière, aumenteranno, così come saranno comprati – contrariamente alle precedenti decisioni – 131 autoblindi Boxer, solo per fare un altro esempio. Di per sé non è una notizia dirompente, né sarebbe giusto scomodare gli ingombranti spettri del pernicioso militarismo tedesco del passato, del tutto incompatibili con la solida e profonda democrazia tedesca di oggi.
È, però, il simbolo della nuova Germania che, a 25 anni dalla caduta del Muro e a 24 dalla riunificazione, sta ritrovando se stessa. E la sua potenza. Perché c’è poco da fare, ovunque si guardi alle vicende soprattutto europee, Berlino – nolente o volente – domina sovrana: che sia la crisi dell’euro, o i negoziati con Atene, o la battaglia sulla “flessibilità”, o ancora la crisi Ucraina: l’ultima parola è di Angela Merkel. Il famoso numero per contattare l’Europa invocato da Henry Kissinger ora c’è, scriveva giorni fa il quotidiano Die Welt: è il centralino della cancelleria federale. Numero che Barack Obama compone sempre più spesso, che sia per parlare della crisi economica, della Grecia, dell’Ucraina.
Non a caso in queste settimane lo scontro del nuovo governo greco con i creditori è stato semplificato e stilizzato in un duello all’ultimo sangue tra il ministro delle Finanze ellenico Yanis Varoufakis e lo stesso Schäuble. Non pochi hanno osservato come l’esigenza di non mettersi contro Berlino (oltre naturalmente a beghe di casa propria e a precisi interessi finanziari) abbia spinto vari paesi del presunto asse del Sud a far quadrato non a favore, ma contro il governo di Alexis Tsipras. A cominciare da Matteo Renzi, che oltre ai 40 miliardi di euro di crediti italiani alla Grecia ha pensato alla sua battaglia per la flessibilità sui nostri conti – che non può vincere senza la Merkel. Non è un caso che proprio Berlino sia stata la prima tappa del primo viaggio europeo del neo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E anche la vicenda ucraina ha visto la cancelliera in primissima linea, con un fitto negoziato diretto con Vladimir Putin.
A dire il vero, la Germania ci ha messo parecchio a capire la sua nuova posizione. La stessa Merkel è stata accusata negli anni passati di inattività, anche da Washington, fulmini e saette sono piovute nel 2011 su Berlino quando la Germania si schierò in sede Onu contro una missione militare in Libia, al fianco di Cina e Russia e contro Usa e Ue. «Il più grande pericolo per l’Europa – diceva tre anni nientemeno che il ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, ironia della storia – non è la potenza della Germania, ma la sua inazione». Berlino è stata strattonata e messa sotto pressione da tutti, anche alla Nato le sono piovute critiche perché spende in difesa “appena” l’1,3% del pil contro il minimo del 2 raccomandato dall’Alleanza (e cioè da Washington).
Tra i primi a capire la particolare posizione, non sempre comoda, è stato il presidente della Repubblica Joachim Gauck, già pastore protestante e tra i volti noti della dissidenza della vecchia Germania Est. «Ho udito spesso lamentele – ha avvertito – da parte dei nostri partner perché non assumiamo un ruolo più attivo. È quello che voglio anch’io dalla Germania». Soprattutto, aggiungeva, «ho la sensazione che il nostro paese dovrebbe abbandonare la riluttanza che ci ha caratterizzato nei decenni passati, a favore di un più forte senso di responsabilità», perché «a volte è necessario imbracciare le armi per combattere per i diritti umani o la sopravvivenza di popoli innocenti». E il monito: «Chi non agisce, si assume delle responsabilità».
Per la Germania del Dopoguerra è una rivoluzione ideologica e culturale, che è stata imbracciata a giro di posta anche dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. «Se i partner guardano alla Germania pieni di aspettative, non è per puro entusiasmo per il modello tedesco, ma perché semplicemente pretendono un impegno che corrisponda alle nostre dimensioni accresciute». Una politica estera più attiva, ha aggiunto il capo della diplomazia tedesca, «non è più libera scelta, ma un dovere. Lo dobbiamo alla comune responsabilità con i nostri partner e i nostri interessi in questo mondo pericoloso». E dunque «la Germania è pronta a fare di più, ad agire più rapidamente, con più decisione e in modo più sostanzioso». E questo, attenzione, «concentrandosi anche sulla prevenzione dei conflitti e nella gestioni del post-conflitto». La via, va però detto, è ancora lunga.
Sul piano militare, ad esempio, si registrano gli effetti di decenni di tagli al bilancio della Bundeswehr, tanto per fare un esempio dei 180 autoblindi GTK Boxer solo 70 sono operativi. Una buona fetta dei velivoli della Luftwaffe, l’aviazione militare, sono bloccati a terra per riparazioni ancora da effettuare. Il 3 ottobre 1990, giorno dell’unificazione, la nuova Germania unita contava 585.000 soldati, oggi siamo a 185.000. Non è facile aumentare l’impegno tedesco nel mondo in queste condizioni, almeno non nei termini che pretendono gli americani. Più delle forze armate, però, conta la politica. E qui si registra il perdurare di una forte resistenza, sia in vari partiti soprattutto del centro-sinistra, sia però anche nella massa della popolazione, come dimostra una raffica di sondaggi degli ultimi mesi.
Secondo un’indagine dello scorso agosto, solo il 30% dei tedeschi vuole più impegno estero della Germania, il 70% è scettico o molto scettico. In un altro sondaggio della primavera del 2014, l’82% voleva ridurre, non aumentare, le missioni militari estere della Germania. Più interessante ancora, il 49% dei tedeschi in quello stesso sondaggio si diceva a favore di una posizione equidistante tra l’Occidente guidato dagli americani, e la Russia. Una specie di “grande Svizzera” nel cuore dell’Europa.
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