Da Medyca all’Europa, in viaggio con donne e bimbi che dicono addio all’Ucraina

19 Marzo 2022

Medyca – Una borsa, uno zaino in spalla, qualche busta della spesa è quello che resta di una vita precedente. La guerra è sottrazione, è scegliere cosa portare via tra il tutto che lasci. C’è chi arriva con un peluche sotto braccio, chi con un cane al guinzaglio o un gatto nel trasportino che sono i nuovi profughi che questa crisi ci sta mettendo davanti agli occhi. Così ogni ora donne e bambini attraversano il confine ucraino, lasciando la guerra e con essa, i propri uomini oltre quel cancello verde che segna il limite tra la pace e il conflitto. Addii con la speranza dell’arrivederci, bagnati dalle lacrime. Sono pochi passi che separano la follia della guerra, dalla pace europea, da quella nuova vita da cercare per necessità, perchè da un giorno all’altro, si è diventati uno stato da invadere, da distruggere, da annettere. Olena, non parla inglese, ma sibila il rumore degli aerei e con un pugno che dall’alto si apre mima le bombe che si sganciano senza badare a chi c’è sotto. È anziana viaggia sola, cerca di capire qual è il momento in cui scendere alla stazione di Cracovia.

Una volta varcata la frontiera, i bambini vengono accolti da giovanissimi volontari svizzeri che donano cioccolata e da altre associazioni che distribuiscono giocattoli. Quel marciapiede, 400 metri appena, è il crocevia di tutto quello che provoca una guerra: volontariato, associazioni, profughi, ma anche mercenari che fanno il percorso inverso e non si sa mai se ringraziarli o averne paura. Hanno tutta l’aria di essere degli esaltati che non sanno bene cosa voglia dire essere svegliati dal suono delle bombe. Sono vestiti con mimetiche militari e passamontagna verdi, marciano compatti in direzione opposta. L’odore è quello stantio delle mense, tutto sa di brodaglia e gli odori, nonostante sia tutto all’aria aperta, si attaccano ai vestiti. Il pullman verso il primo centro di accoglienza è a pochi passi, mentre in lontananza si sente un pianoforte che suona “Imagine” di John Lennon, ma anche “My way” di Frank Sinatra. Quella canzone che fa “Immaginate che non ci siano patrie, Non è difficile farlo; Nulla per cui uccidere o morire; Ed anche alcuna religione Immaginate tutta la gente, che vive la vita in pace” che qui suona come una preghiera in un girone dell’inferno. Al piano c’è Davide Martello, un italiano che in macchina ha trascinato il suo pianoforte nero con il simbolo della pace, fino a qui. Lo fa per “allentare la tensione” perchè la musica può portare la pace.

Il pullman è fermo che aspetta, si sale e ci si siede tutti, cercando di tenere nel posto più vicino gli affetti, come se ci fosse ancora bisogno di stringersi e difendersi. Si sta anche in piedi, mentre qualcuno, in quella lingua dura, sale a dire cosa succederà di lì a poco, a tranquillizzare chi porta addosso tutte le ferite nascoste della guerra. Sono su quel pullman insieme alla mia collega Romana, a Roma diremmo che ci siamo “imbucate”, un po’ è così, ma non c’è altro modo per andare via da qui se non hai un mezzo tuo. Lei è seduta nell’ultima fila, io all’inizio. Ci scambiamo degli sms, in questa strana tranquillità, catatonica, irreale. Come se in qualche modo questa guerra fosse attesa, come se lo shock sia ancora troppo fresco per scatenare i suoi effetti. Siamo donne tra donne in fuga, nessuno bada a noi, a quello che però ci rende distanti: noi una casa dove tornare alla fine di questa corsa l’abbiamo. La strada verso il grande centro di raccolta a Przemsyl è lunga poco più di 10 chilometri di autostrada, dove è evidente la colonna dei mezzi, delle ambulanze, in fila ad attendere che la frontiera si apra per portare aiuti fin dentro le città colpite dal conflitto e riportare indietro chi è ancora ricoverato negli ospedali o bloccato nelle città. In molte zone dell’Ucraina è saltata la corrente elettrica a causa dei bombardamenti e iniziano a scarseggiare i beni di prima necessità, così gli aiuti sono l’unico strumento di sopravvivenza. Mentre qui il cibo non manca, le associazioni distribuiscono buste con panini, acqua, cibi caldi, banane. Ognuno ha qualcosa da offrire. I I bambini apprezzano, e le mamme nel vedere i loro sorrisi, si fanno per un momento più serene.

Il silenzio nel pullman è irreale, solo ogni tanto un bambino rompe la tensione con il pianto, risvegliando ciascuno dai propri pensieri. Dopo pochi minuti si arriva nel grande parcheggio di quello che una volta doveva essere un grosso magazzino, qui è ancora una volta accoglienza. Decine di volontari distinguibili dai fratini gialli e arancioni, che sulle spalle hanno segnato con un pennarello le lingue parlate. Si perchè le tante associazioni, grandi e piccole, da ogni parte d’Europa arrivano qui per dare il proprio aiuto, prestare passaggi a chi ha un indirizzo da raggiungere in qualche città europea. In questi centri si rimane solo poche ore, il tempo di essere registrati e ottenere il documento che garantisce il permesso temporaneo europeo, quello che consente di aggirare le norme del regolamento di Dublino, che invece imporrebbe il soggiorno nel paese di primo approdo. Ma questa è un’emergenza umanitaria e l’Europa non ha potuto scaricare tutto il peso di un intero popolo in fuga su pochi paesi confinanti che stanno facendo un lavoro enorme per la prima accoglienza. Le temperature scendono spesso svariati gradi sotto lo zero e le brandine non bastano per tutti.

Qui come alla stazione, si sta lo stretto necessario poi si cerca una staffetta per andare via. Così tra cartelli scritti in inglese, associazioni pronte a caricare i van verso Berlino, Francoforte, il Belgio e la Spagna, la stazione si è trasformata in una grande sala d’accoglienza, i binari in una tavola calda all’aperto. E quel bar della stazione, pieno di stucchi e lampadari, testimoni di uno sfarzo andato, cerca di preservare qualche tavolo ai giornalisti e a chi ha moneta per pagare. Przemsyl è una terra di confine e come tale ha la guerra nel dna, è stata contesa in tutte le guerre, tirata per la giacca dalla Russia, dalla Polonia e persino dall’Austria nel ‘700. E’ la città più antica della Polonia dopo Cracovia, qui il lusso dell’impero è ancora tangibile come in questa stazione che è di nuovo chiamata a curare le ferite della guerra. C’è una donna che viaggia con il suo nipote adolescente che parla appena qualche parola di inglese. Con lei la conversazione avviene grazie a google translator, io scrivo in italiano e lei risponde in polacco. Al resto pensa la tecnologia. Molti qui, usano i software per superare la barriera linguistica, per trovare una soluzione. Racconta questo “sto aspettando mia figlia che vive a Barcellona, arriverà in auto fino a Cracovia e poi ripartiremo insieme tra qualche giorno”. Quel ragazzo chi è? “suo figlio, me lo aveva affidato mentre lei cercava fortuna fuori dall’Ucraina”. Ma pensate di rientrare una volta finita la guerra? “Putin è un pazzo, sono otto anni che viviamo sotto minaccia e questa guerra non finirà presto” racconta mentre sul telefono mostra i video dei bombardamenti che circolano sui canali Telegram. Tra le righe sembra dire che guerra o no, la vita in Ucraina è sempre al limite.

Chi può da qui va via a bordo del treno per raggiungere Cracovia e le altre città della Polonia, e poi altri passaggi ancora. Così i profughi si trovano anche nella hall della stazione centrale, ormai a centinaia di chilometri dal confine, ma sempre in piena emergenza. “Ho vissuto otto giorni in un bunker prima di riuscire a scappare” racconta Alina che viaggia con madre, figlio di circa 10 anni e un gatto grigio che fa capolino da una cuccetta – “stiamo aspettando i documenti e il pullman di una ong spagnola per raggiungere Murcia, dove abbiamo dei contatti per un primo appoggio e poi si vedrà. Il futuro adesso dipende da troppe cose”. Nella città che ha visto Karol Wojtyla vescovo, gli ucraini dormono nelle strutture messe in campo dal municipio, ma che non bastano a fronte di un flusso di gente costante che conta già 2,5 milioni di ucraini lontani da casa. Sdraiati a terra, seduti sulle panchine della stazione, in fila per il cibo e per andare al bagno, aspettano e non si lamentano. I volontari di Croce Rossa, Caritas, Sovrano ordine di Malta, e tante altre sigle minori si muovono in un moto perpetuo con cassette cariche di cibo e prodotti per l’igiene (deodoranti, saponi, burro cacao) tra le persone ammassate. C’è anche un punto dove poter prendere il cibo per cani e gatti, trasportini e traversine igieniche. Ogni tanto qualche ragazzino ti colpisce con il pallone, perchè questi corridoi sono diventati in tutto e per tutto casa, mentre i polacchi passano a passo svelto continuando la propria vita. In questi corridoi si scontra la normalità europea all’assurdità di un conflitto. In pochi metri si consumano tutte le contraddizioni del nostro tempo.

E tra tanta solidarietà, c’è il rischio dei trafficanti che approfittando di una situazione caotica e della fragilità di donne e bambini, i più fragili in tutte le classifiche, possano dietro il cartello di un aiuto trasformare il dramma in tragedia. Perché i trafficanti di esseri umani in questi contesti proliferano, si fanno sciacalli. Per questo è importante controllare, registrare chi arriva, tenerne traccia fino all’approdo finale. Sono pochi quelli che credono che il conflitto finirà a breve, molti sono pronti a ricominciare a vivere un’altra vita in un altro luogo. Perché in fondo, l’Ucraina in trent’anni di indipendenza, al sicuro non c’è stata mai.
 

TAG: emergenza profughi, guerra, guerra ucraina, russia, ucraina
CAT: Geopolitica, Russia

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