Se la parola Patria significa ancora qualcosa per qualcuno…

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12 Febbraio 2019

Cercando informazioni sul tema dell’autonomia regionale ha trovato questo articolo molto bello e chiaro, che spiega, con abbondanza di particolari, che cosa sta succedendo in queste settimane e cosa potrebbe accadere in futuro. Lo pubblico integralmente con il permesso dell’autore. E’ da leggere, anche solo per non dire “nessuno mi aveva informato”.

Troppi silenzi e troppe complicità su pericoli e disastri del regionalismo differenziato

di Giuliano Laccetti

Il regionalismo differenziato è una norma costituzionale (di fatto inserita nell’articolo 116, con riferimenti precisi agli altri articoli 117, 119, eccetera della Costituzione) introdotta con la cosiddetta riforma del Titolo V del 2001, ma facente riferimento ed espandendo e precisando ad esempio l’articolo 5 della Costituzione.

Articolo 116 comma 3: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.”

A fine 2017, con referendum consultivi, Veneto e Lombardia hanno avviato la procedura di richiesta di autonomia su 23 materie: offerta formativa scolastica, contributi alle scuole private, fondi per l’edilizia scolastica, diritto allo studio e la formazione universitari, cassa integrazione guadagni, programmazione dei flussi migratori, previdenza complementare, contratti con il personale sanitario, fondi per il sostegno alle imprese, Soprintendenze, valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio, concessioni per l’idroelettrico e lo stoccaggio del gas, autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, protezione civile, Vigili del Fuoco, strade, autostrade, porti e aeroporti, partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, promozione all’estero, Istat, Corecom al posto dell’Agcom, professioni non ordinistiche.

E altro, perché l’elenco è incompleto.

In questo modo, verrebbero espropriati della competenza statale tutti i grandi servizi pubblici nazionali e verrebbe meno qualsiasi possibile programmazione infrastrutturale in tutto il Paese.

Il Veneto propone di calcolare i fabbisogni standard tenendo conto non solo dei bisogni specifici della popolazione e dei territori (quanti bambini da istruire, quanti disabili da assistere, quante frane da tenere sotto controllo e mettere in sicurezza, eccetera), ma anche del gettito fiscale, cioè della ricchezza dei cittadini. Tale richiesta è EVERSIVA.

In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti.

Dal 2001 nessun governo ha trovato il tempo di definire i cosiddetti LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali e civili da garantire, in maniera omogenea e diffusa su tutto il territorio nazionale, cioè a TUTTI, secondo Costituzione. Se non si sa quanto costano i LEP, come si può stabilire l’entità delle risorse da assegnare alle regioni per garantirne il godimento ai cittadini?

La discussione è finora avvenuta tra governo e Regioni (il 28 febbraio 2018, a 4 giorni dalle elezioni, in maniera improvvida per usare un eufemismo, il governo Gentiloni siglava un pre-accordo con le tre regioni, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, che avevano avanzato richieste di regionalismo differenziato e di autonomia su determinate materie. Giusto per la precisione, a fronte delle 23 materie su cui Veneto e Lombardia chiedono piena autonomia, cioè TUTTE quelle possibili, l’Emilia-Romagna la chiede solo per 15). Successivamente la trattativa è andata avanti con il nuovo esecutivo a guida Salv… ooops, Conte.

Finora, ad esempio, formalmente il presidente della regione Veneto, un veneto, leghista, Zaia, si è incontrato con il ministro degli Affari Regionali, una veneta, leghista, Stefani, per discutere della richiesta del Veneto, che riguarda ovviamente il solo Veneto. Da ridere? Da piangere? Che dite, avranno trovato un accordo? Fate voi.

Il 15 febbraio o giù di lì dovrebbe esserci l’approvazione in Consiglio dei ministri di questa intesa tra un veneto e una veneta, ma anche di analoghe richieste, come dicevo, di Lombardia (presidente leghista) ed Emilia-Romagna (presidente Pd). Ricordando quello che ebbe a dichiarare Salvini, “Per me è già approvata”, quando, a ottobre scorso, si pose la questione, e si organizzava la tempistica, le richieste saranno rapidamente approvate dal CdM e finalmente, penserete, arriveranno in Parlamento. Si. Giusto. Il Parlamento, però, non potrà cambiare di una virgola l’intesa approvata, ma solo respingerla o approvarla esattamente come verrà presentata. Qualsiasi modifica o addirittura abrogazione dovrebbe essere approvata dalla Regione interessata che però questa volta dovrebbe prestare il proprio consenso per rinunciare alle nuove competenze e “benefici”, per cui è facilmente ipotizzabile che tale consenso non ci sarà. Secondo i costituzionalisti (ma è materia non ancora esplorata a fondo) non sarebbe possibile neanche un referendum abrogativo, sarebbe necessaria una riforma costituzionale; secondo alcuni studi (Adriano Giannola, presidente della SviMez, ad esempio) addirittura neanche una riforma della Costituzione sarebbe sufficiente, in quanto la stessa revisione costituzionale non potrebbe incidere sull’assetto dei poteri anteriormente stabilito dalla legge di differenziazione.

Insomma, un pericoloso ginepraio.

Ma, vediamo. Che cosa stanno chiedendo Veneto e Lombardia? Più autonomia, più potere di decisione, più soldi (L’Emilia-Romagna chiede solo autonomia di decisione, non più soldi. Per ora).

“Il principio per cui lo Stato non dovrà limitarsi a trasferire alle regioni la cosiddetta spesa storica, cioè la somma che attualmente spende per soddisfare le medesime funzioni, è stato chiaramente affermato anche dal governo, in sede di stipula dei tre accordi preliminari del 28 febbraio 2018. Secondo l’articolo 4 di tali accordi, il criterio della spesa storica dovrà essere superato entro cinque anni, perché a regime il trasferimento delle risorse dovrà essere definito in base ai «fabbisogni standard» calcolati non solo «in relazione alla popolazione residente», ma anche con riferimento al «gettito dei tributi maturati sul territorio»”. (cit. Carlo Iannello, Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza)

Le Regioni, allora, stanno chiedendo di trattenere una cospicua quota del cosiddetto residuo fiscale. Il residuo fiscale “regionale” è una stima calcolata sottraendo dal gettito fiscale complessivo generato dai contribuenti residenti nella regione, la spesa pubblica complessiva in quella stessa regione.

“Una proposta che scavalca del tutto l’articolo 53 della Costituzione, per cui il “patto fiscale” viene stipulato tra lo Stato e i cittadini, e si fonda sulle nozioni di «progressività» e di «capacità contributiva» del cittadino proprio per consentire le politiche dell’uguaglianza e permettere allo Stato di adempiere ai suoi compiti redistributivi” (cit. Carlo Iannello, ibidem) . Ancora, studi di Adriano Giannola evidenziano come «i calcoli di dare/avere in termini di imposte e spesa pubblica hanno senso solo se riferiti a singoli individui» in quanto «i territori non pagano imposte». Come scrive ancora Iannello nel già citato pezzo, “introdurre un principio di territorialità delle aliquote, declinato su base regionale, contrasterebbe con l’impostazione dell’articolo 53, con effetti dirompenti sull’unità dell’ordinamento”.

Ad ogni modo, se venisse usato il criterio del residuo fiscale regionale, la spesa pubblica dovrebbe aumentare, di molto, in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, diminuire di molto in TUTTO il Mezzogiorno. Evidentemente NON è possibile se si vuole salvaguardare la coesione nazionale, e se si vuole diminuire il gap tra Nord e Sud. Economicamente, inoltre, sarebbe una sciocchezza. Molti beni e servizi prodotti nel Nord vengono utilizzati al Sud. Con minore capacità di acquisto al Sud, possiamo dire così, l’economia danneggiata, alla lunga, sarebbe quella del Nord. Una spesa nel Mezzogiorno ha un effetto traino, generando acquisti dal Nord; una maggiore spesa nelle regioni più ricche ha effetto solo in quelle regioni, non si trasmette al resto del Paese. Quindi è una enorme bufala quella secondo la quale il regionalismo differenziato farebbe economicamente bene a tutto il Paese. La crescita economica di una regione, di un Paese, si avvera se tale regione o Paese è inserita/o in un contesto più ampio, un “mercato” e una comunità, nazionale e internazionale ampie, allargate, con connessioni di interdipendenza, in modo che la crescita e lo sviluppo economico (e civile, sociale, eccetera) di una regione e di uno Stato, permettano la crescita e lo sviluppo delle altre regioni e degli altri Stati.

E ancora.

Il rapporto 2018 della SviMez pubblicato già da varie settimane, ricorda, tra le altre cose, che il considerare (come ancora qualcuno afferma) il Mezzogiorno come una sorta di zavorra per lo sviluppo della parte più ricca d’Italia, sia un bestialità.

Il mercato di destinazione del Sud, come cercavo di dire poco sopra, solo per fare un esempio, genera al Nord una ricchezza di circa 200 miliardi. E, ancora, sottolinea la questione delle risorse umane, delle intelligenze, che da Sud emigrano al Nord. Nel 2016-2017 un quarto degli studenti residenti nel Mezzogiorno iscritti alle Università, ad esempio, lo ha fatto in Università del Nord. 175.000 ragazzi e ragazze del Sud vivono e studiano al Nord, spostando circa 3 miliardi di consumi, pubblici e privati, da Sud a Nord, senza tener conto dei circa 2 miliardi che, stima la SviMez, sono stati necessari per formarli fino alle soglie dell’università: soldi spesi dal Sud, i cui frutti verranno utilizzati al Nord, che invece non ha speso neanche un centesimo per quei giovani.

Ma i cittadini sono informati di tutte queste questioni? O esse sono relegate in uno stretto giro di giuristi, costituzionalisti, economisti, pochi attenti osservatori? Purtroppo è quello che sta accadendo. I media, stampa e televisioni, NON ne parlano, o ne parlano in maniera distorta e “spettacolare”, senza spiegare alcunché.

Chi si sta muovendo? Innanzitutto il professor Gianfranco Viesti, che da tempo ormai scrive articoli su quotidiani e riviste, libri, partecipa a decine e decine di convegni e manifestazioni, denunciando il grave pericolo che corriamo; qualche mese fa ha lanciato una raccolta di firme per una petizione contro la secessione dei ricchi, che ad oggi ha raggiunto circa 15.000 adesioni; e tanti intellettuali, economisti, giuristi, da Massimo Villone, ad Adriano Giannola ad Alberto Lucarelli, non hanno fatto mancare la loro voce; recentemente, un appello di intellettuali e professori universitari napoletani (ma non solo), ideato da Eugenio Mazzarella, e rilanciato dal sottoscritto sotto forma di petizione pubblica, sta raccogliendo molte e qualificate adesioni nel campo delle professioni, dei saperi, dell’università, della scuola, della ricerca.

Infine, il caporedattore Economia del Mattino, Marco Esposito, che da tempo conduce una battaglia su queste questioni, anche con il suo apprezzatissimo e fondamentale contributo “Zero al Sud”, in cui illustra, specialmente dal punto di vista economico e sociale, storture, omertà, bugie, iniquità, veri e propri imbrogli.

Tutti gli altri stanno lasciando soli in questa battaglia Viesti e questo pugno di studiosi. Le forze politiche, a parte la Lega (Nord), non si esprimono in maniera chiara, univoca: i 5S, con il Mezzogiorno loro serbatoio di voti, sono afoni anche per non vedersi “bloccata” dalla Lega la loro iniziativa-flag sul Reddito di Cittadinanza; Pd e Forza Italia hanno al loro interno posizioni diametralmente opposte, e… preferiscono il silenzio, almeno a livello nazionale. Martina e Zingaretti, tanto per dire, non hanno espresso un’opinione, un’iniziativa, una proposta su tale tema. Non si può non ricordare però il purtroppo chiaro e duro intervento della vicecapogruppo vicario del Pd alla Camera, la veneta Alessia Rotta, che parla come un leghista… “ante-Pontida”, potremmo dire parafrasando Totò: “Questa autonomia regionale l’avevano annunciata per ottobre, poi promessa per novembre, adesso rinviano il tutto a febbraio… chi ci prende per i fondelli? Salvini o Zaia?”. E ancora: “Zaia aveva fatto della richiesta ‘il 90% del gettito fiscale resti al Veneto’ la sua parola d’ordine, ora non ne parla più. Chi vuole prendere in giro?”.

Nel Pd c’è quindi chi considera giusto e auspicabile che chi risiede in un territorio più ricco abbia più bisogno e più diritto a scuola, sanità, sicurezza, protezione civile eccetera, di chi vive in una regione che ha minore capacità fiscale. Da non credere!

Per ragioni simili, poi, sindacati e associazioni tipo Confindustria, tendono a restare colpevolmente silenti: nel mentre per il 9 febbraio CGIL-CISL-UIL organizzano una grande manifestazione nazionale di protesta (e di proposta) contro le politiche governative, nei temi al centro della manifestazione non c’è una parola sul tema del regionalismo differenziato, che porterebbe a uno stravolgimento dell’organizzazione statuale, con particolari e gravi effetti, ad esempio, su scuola e sanità: evidentemente al Nord questa idea piace, in maniera miope quantomeno, anche ai sindacati.

Lo stesso dicasi per Confindustria (con presidente salernitano, peraltro): i “nordisti” lombardi e veneti spingono, con più o meno “durezza”, per l’autonomia e il “guadagno” al Nord di ingenti somme di denaro “pubblico”. Gli industriali (e le sezioni di Confindustria) meridionali stanno tentando di chiarire la questione, e si contrappongono ai colleghi del Nord.

E le Regioni del Sud? Emiliano e la Puglia rivendicano autonomia; De Luca e la Campania, che in un primo tempo sembravano nettamente contrari e si preparavano alla battaglia, hanno partorito un odg votato da centrodestra e centrosinistra, con l’astensione dei 5S, annacquato e timido, che non pone il problema della gestione di materie strategiche per lo sviluppo nazionale, e punta, dopo aver diffidato il governo a sottrarre fondi alla Campania, anch’essa a un’autonomia su varie materie che verranno meglio in seguito precisate. Il consiglio regionale della Calabria, all’unanimità, invece, ha preso una chiara posizione, provando a fare “le barricate” rispetto al regionalismo differenziato, avanzando una sua proposta, in cui, tra l’altro, in modo netto e inequivocabile (come del resto chiedeva la petizione “No alla secessione dei ricchi” di Gianfranco Viesti) si chiede che prima di ogni decisione in merito, siano definiti i LEP, i livelli essenziali di diritti civili e sociali da garantirsi SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE.

Last but not least, i sindaci. Per fortuna, da questo “lato” ci si sta muovendo. Una lettera al direttore di Repubblica del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, mette i puntini sulle “i”, e contesta la richiesta di più potere e soldi alle regioni, in particolare alla regione Lombardia, di cui Milano è capoluogo, ricordando, correttamente a mio avviso, l’importanza, amministrativa, sociale e storica, delle città, dei comuni, rispetto alle regioni, enti “giustapposti” a territori più o meno ampi. “Le Regioni che vogliono più autonomia chiedono di gestire più competenze o semplicemente più risorse e quindi più potere? E se alcune Regioni avessero più risorse come si farebbe, onestamente, a non penalizzare le altre?”, testuale, la domanda, semplice e precisa, che pone il sindaco di Milano.

E ancora. Una intervista de Il Mattino al sindaco di Bologna, Virginio Merola, in maniera semplice, chiara, diretta, denuncia rischi e pericoli del regionalismo differenziato come richiesto dai “leghisti” (e, come abbiamo visto, in realtà, da molte forze politiche e sindacali e culturali del Nord Italia), e chiama a raccolta per così dire, almeno i sindaci delle città metropolitane, perché, tutti d’accordo, facciano sentire alta la loro voce per fermare questo eversivo progetto.

A mio avviso c’è, però, un altro pericolo. Anche a fronte di minore spesa pubblica, di minori fondi da gestire, le Regioni del Sud (meglio, i loro presidenti e governanti, le forze politiche) potrebbero essere fortemente attratte da questa richiesta di regionalismo differenziato: avrebbero meno soldi, ma potrebbero “mettere le mani” su sanità, ancora di più di quanto facciano oggi; su scuola (e insegnanti!); su diritto allo studio universitario; sulla gestione del corpo dei vigili del fuoco (e sui vigili del fuoco!). Tanto potere concentrato a livello locale, sarebbe pericolosissimo dappertutto, al Nord, al Sud, al Centro.

C’è insomma di che essere preoccupati. Servizi essenziali come gestione e manutenzione del territorio, trasporti, turismo, sanità, scuola, università, massacrati da tagli lineari, subiranno un’ulteriore grave divaricazione tra Nord e Sud, minando l’uguaglianza dei cittadini e il principio di equa ripartizione delle risorse, tesa a favorire lo sviluppo dei territori in difficoltà. E stavolta non solo di fatto, ma addirittura per legge costituzionale, ci saranno cittadini con più servizi e più diritti di altri, esclusivamente in base al territorio in cui risiedono.

Notizie dell’ultim’ora informano di un possibile/probabile rinvio di fatto della approvazione dell’accordo: il 15 febbraio la ministra Stefani proporrà al Consiglio dei Ministri di approvare le intese tra Stato (governo) e regioni “secessioniste”, chiamiamole così; il Consiglio dei Ministri dovrebbe autorizzare Conte di firmare tali accordi e portarli in Parlamento. In effetti, Conte dovrebbe fare un ultimo giro di verifica finale con i presidenti delle regioni interessate, arrivando, di fatto, a metà marzo. Si attende inoltre il parere del MEF che NON c’è stato, e, trattando l’accordo anche di trasferimento di risorse, pare opportuno una parola del ministro competente.

Non previsto, si apre un sia pure ristretto margine di tempo perché la pressione contro questa secessione dei ricchi si faccia ancora più forte e diffusa e condivisa.

Per concludere, credo sia indispensabile che anche da queste colonne, come hanno già fatto studiosi, intellettuali, giornalisti, cittadini, parta un appello ai parlamentari eletti al Sud, in primis, ma ovviamente a TUTTI i parlamentari, e, come sembra possibile, ai sindaci delle città metropolitane ma anche di tutti i comuni italiani, per chiedere quanto meno che nessun trasferimento di poteri e risorse a una regione sia effettuato o approvato fino a quando non saranno definiti i LEP concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (articolo 117 della Costituzione); che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia calcolato ESCLUSIVAMENTE sui fabbisogni dei territori, numero di abitanti, eccetera, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza; che governo, media, forze politiche, attraverso documenti, trasmissioni dedicate su radio e TV, manifestazioni, informino correttamente ed esaustivamente i cittadini tutti.

TAG: Autonomia e Secessione, costituzione, lega nord salvini, patriottismo, secessione
CAT: Governo, Legislazione

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