Mille giorni e poco più
Il premier ha appena rassegnato le dimissioni, dopo che quasi 19 milioni e mezzo di italiani hanno votato contro la riforma costituzionale su cui il governo Renzi aveva puntato moltissimo, se non tutto. Questo, poco più di due settimane dopo aver spento la millesima candelina. Proviamo a fare un riassunto, non esaustivo, di cosa è successo dal quel sabato 22 febbraio 2014.
Il Jobs Act
Anglicismo renziano per antonomasia, il Jobs Act, approvato nel 2014 e implementato nel 2015, ha riformato il mercato del lavoro italiano. È stato un complesso di interventi tesi alla flessibilizzazione e semplificazione da una parte, con l’abolizione dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiustificato e l’introduzione del contratto a tutele crescenti, e all’incremento dei sostegni dall’altra, con l’assegno di ricollocamento e l’accompagnamento al reinserimento lavorativo. Gli effetti? Assieme agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato, ha contribuito ad ottenere (febbraio 2014-settembre 2016), 656 mila occupati in più (di cui 487 mila permanenti), 665 mila inattivi in meno, e una disoccupazione più bassa dell’ 1,1% (-5,9% quella giovanile); una nota negativa e da tenere sotto controllo è la presenza dei lavoratori pagati tramite voucher nel computo degli occupati (non permanenti): sebbene rappresentino fra l’1,9% e il 2,7% della forza lavoro, sono in costante aumento dal 2012. Mentre la velocità di questa spinta propulsiva occupazionale sta diminuendo, di pari passo con la decontribuzione, è solo fra qualche anno che sarà possibile valutare con maggiore consapevolezza la bontà strutturale della riforma.
La Buona Scuola
Forse l’impresa più ardua, quella di traghettare la scuola secondaria italiana nel terzo millennio curando i suoi mali cronici, è anche quella che ha maggiormente disatteso le aspettative, perlomeno per quanto riguarda precari e supplenti. Ci sono state 90 delle 100 mila assunzioni annunciate, la differenza in gran parte dovuta al rifiuto dei docenti di trasferirsi in regioni anche molto distanti da quella di provenienza; che è poi la ragione dietro alla mancata estirpazione della “supplentite”, con numeri in leggera flessione ma ancora oltre le 100 mila unità per l’anno scolastico 2015/2016. D’altro canto, l’alternanza scuola-lavoro ha già visto oltre 600 mila studenti coinvolti, e quest’anno scolastico introdurrà per la prima volta la punta di diamante dell’auspicata maggiore autonomia degli instituti, ovvero la chiamata diretta degli insegnanti per l’organico di potenziamento da parte del preside, in base alle competenze richieste dal piano dell’offerta formativa. Non possiamo poi dimenticare gli stanziamenti per la digitalizzazione (350 milioni finora), e quelli per l’edilizia scolastica (430 milioni finora).
Le unioni civili
Storico è il risultato dell’11 maggio 2016, quell’approvazione della legge sulle unioni civili che fa fare diversi passi avanti al paese e costa diversi voti cattolici al premier. Il compromesso che il governo ha raggiunto include l’applicazione del codice civile sulla comunione dei beni e sul regime patrimoniale della famiglia, e regolamenta diritti successori e reversibilità. Esclude però l’adozione del figlio del partner, meglio conosciuta come stepchild adoption, e l’obbligo di fedeltà.
Tasse e spesa pubblica
Qual è invece l’eredità fiscale del governo finora? Guardando ai dati aggregati, vediamo che la pressione fiscale è scesa leggermente dal 2013, e così il deficit, con un -0,4% rispetto al primo trimestre del 2014. In termini di singoli interventi (e aldilà delle decontribuzioni già menzionate), le misure sono state variegate e, sebbene un abbassamento delle tasse sia in generale auspicabile, alcune hanno sollevato più critiche di altre, l’eliminazione di IMU e TASI sulla prima casa in testa. Sorge infatti spontaneo chiedersi se fosse necessario cancellare queste imposte per i redditi più alti, soprattutto dato il fatto che sono fra le più difficili da evadere, e quindi a gettito quasi certamente completo. Per il resto, il governo ha mirato a ridurre il cuneo per le imprese, eliminando la compente lavoro dell’IRAP, tagliando l’IRES (2017), e introducendo i superammortamenti per il rinnovamento dei beni strumentali, e per l’agricoltura, con la cancellazione di IMU, IRAP e IRPEF agricole (quest’ultima dal 2017).
Gli 80 euro et similia
Molto contestate sono state, in questi quasi tre anni, le cosiddette “mance”, dai famigerati 80 in busta paga ai più recenti 500 euro per i neodiciottenni. Provvedimenti che, i detrattori accusano, non si vanno ad inserire all’interno di nessun piano specifico ma servono piuttosto a riempire buchi elettorali. Il governo è di un altro avviso, e sostiene che ognuno di essi è un (più o meno) necessario supporto a una categoria specifica: gli 80 euro come sostegno ai redditi più bassi, i 500 euro come incentivo alla cultura fra i giovanissimi, i bonus bebè, future mamme e asili nido come investimento nella natalità e nella famiglia, l’estensione della quattordicesima e l’anticipo pensionistico come strumenti di sostegno e flessibilità nell’uscita dal mercato del lavoro o, in ultimo, la proroga delle decontribuzioni per i neoassunti al Sud, per il rilancio del Mezzogiorno. Altro tema molto discusso è l’equità intergenerazionale di questi provvedimenti: il Governo sostiene che essi andranno a compensare sbilanciamenti emersi a seguito alle drastiche politiche messe in atto durante la crisi, mentre i critici vi individuano una sostanziale asimmetria, ancora una volta a favore delle generazioni più anziane. Quale che sia la ragione di fondo (e dopotutto, come dice il sottosegretario Nannicini, “accusare un politico di cercare voti è come accusare l’AVIS di raccogliere sangue”), è difficile stabilire l’entità del successo di questi interventi sui risultati aggregati.
La crescita
Non potendo appunto isolare il ruolo dei diversi provvedimenti governativi nel determinare il ritorno a una crescita economica positiva, e non potendo neppure capire quanto questa sia stata favorita dalle circostanze europee e impedita dai tanti freni strutturali italiani, possiamo solo prendere atto dei risultati finali. Risultati finali che ci dicono che, dal primo trimestre del 2014 al terzo del 2016, il PIL è cresciuto dell’ 1,6% (+3,3% i consumi, +7,4% l’export, +2,3% la produzione industriale), dopo gli anni di sola recessione della crisi. Allo stesso tempo, se proviamo a relativizzare il dato finale, ci troviamo a viaggiare ancora penultimi in Europa, in base agli ultimi dati tendenziali.
Il reddito di inclusione
Il secondo primato del governo, oltre alle unioni civili, è quello dell’introduzione di uno strumento unico di lotta alla povertà, assente ormai solo da noi e in Grecia. Il reddito di inclusione è un sostegno al reddito, elargito a livello di nucleo familiare, fino a circa 320 euro al mese e coadiuvato da un percorso di inclusione sociale e nel mercato del lavoro. Tuttavia, le risorse a disposizione sono per ora limitate, e consentiranno di raggiungere solamente circa il 35% della platea di individui in condizione di povertà assoluta.
La riforma della pubblica amministrazione
La riforma Madia, approvata fra il 2014 e il 2015 e i cui ultimi decreti attuativi devono ancora completare l’iter legislativo, comprende un ampio raggio di interventi mirati a snellire la tanto vituperata burocrazia italiana e portare la PA più vicina al cittadino. Include quindi, tra le altre cose, una maggiore accessibilità (sia in termini di tempo che di costi) a documenti e dati della PA da parte del cittadino, una stretta sui procedimenti disciplinari per l’assenteismo degli impiegati pubblici, la riduzione delle società partecipate (inattive, troppo piccole o che non producono servizi indispensabili per la collettività), la digitalizzazione del rapporto fra cittadino e PA con la centralizzazione dei servizi in un solo account e la riduzione dei corpi di polizia. Una riforma ambiziosa che ha trovato non pochi ostacoli lungo il percorso di approvazione, in ultimo il giudizio di incostituzionalità per quattro degli articoli della legge delega, tre dei quali erano già stati attuati (partecipate, dirigenti, servizi pubblici). Essendo l’oggetto del contendere la possibilità di attuare la legge delega solo con il parere, ma senza l’intesa, con le regioni (aspetto presente in molti articoli del testo originale), c’è ora il timore che buona parte della riforma debba essere riconcordata.
La lotta alla corruzione e la riforma della giustizia
Nel giugno 2014, neanche quattro mesi dopo l’inizio del mandato governativo, un decreto legge rinconfigura totalmente la già giovane Autorità Nazionale Anticorruzione con Presidente Raffaele Cantone, ex sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Napoli. L’ANAC ha il compito di vigilare sui contratti pubblici e a questo fine è dotata di ampia autonomia e poteri, una configurazione che ha permesso di raggiungere risultati importanti (basti pensare al raddoppio delle segnalazioni di anomalie su appalti nel 2015 rispetto al 2014, o al ruolo sostanzioso durante Expo). La riforma della giustizia era un altro tema centrale dei primi tempi di governo, capitanata dal dimezzamento degli arretrati in termini di processi civili. Alla fine dei mille giorni il dimezzamento non è purtroppo ancora avvenuto e molte delle ambizioni iniziali sono rimaste tali, compreso il ddl di riforma del processo penale, congelato fino a dopo il referendum. In compenso, è stata introdotta la responsabilità civile dei magistrati, il processo civile telematico, e il falso in bilancio è tornato ad essere delitto.
Il rapporto con l’Europa
La dialettica con l’Europa, nell’era di Renzi, non è stata di certo monotona e ha raggiunto, negli ultimi frangenti, il tono di un vero scontro, all’insegna di un ritorno ai valori fondanti dell’Unione e di un abbandono dell’austerità. Il governo era inizialmente arrivato a Bruxelles come forza propulsiva e riformatrice, benedetto dall’apparato eurocrate e sospinto dalla legittimazione politica delle elezioni europee di maggio 2014. Poi c’è stato il semestre di guida italiano, la crisi greca, le tensioni con il Cremlino, il decreto “salva-banche” e infine l’emergenza migratoria e il voto per la Brexit. Anni in cui Renzi ha alternato la vicinanza al duo Merkel-Hollande a posizioni più distanti (il sostegno moderato a Tsipras, la riluttanza verso le sanzioni russe) o addirittura conflittuali (come nel caso del doppiopesismo nel salvataggio delle banche italiane e tedesche, o dell’eccessivo surplus commerciale della Germania). Sebbene sempre coerenti con una visione pro-crescita ed europeista del governo, gli inasprimenti sembrano seguire il ciclo elettorale, essendo il braccio di ferro con l’Europa benvisto da molto dell’elettorato inviso al premier. Inasprimenti che sono pertanto particolarmente rilevanti e intensi ora (veto al bilancio comunitario, la scelta di ridurre la presenza di bandiere europee), a ridosso di un referendum in cui il governo era costretto a recuperare consensi rapidamente.
L’Italicum
L’Italicum è la legge elettorale approvata a maggio 2015, che dà forma alla volontà del governo, chiara e sempre dichiarata, di avere un vincitore netto dalle elezioni e quindi un esecutivo stabile, anche a discapito della rappresentatività. Questo è assicurato da un sistema a doppio turno che vede i due partiti primi classificati (a meno che uno non abbia raggiunto il 40% al primo turno), sfidarsi in un ballottaggio che assicura al vincitore il 54% dei seggi; l’elezione avviene attraverso 100 collegi plurinominali con capilista bloccati e prevede una soglia di sbarramento per i partiti al 3%. Tuttavia, sarà il primo tassello dell’eredità renziana a cadere: l’Italicum è infatti una legge elettorale valida solo per la Camera, poiché era stata pensata per funzionare in “combinato disposto” con…
La riforma costituzionale
Vera e propria spada di Damocle per il premier, la riforma è stata per diversi mesi parte integrante della nostra quotidianità. Trattava primariamente del superamento del bicameralismo perfetto e di una riorganizzazione delle competenze fra stato e regioni contenute nel titolo V, con un iter parlamentare che comincia lontano (aprile 2014), finendo esattamente due anni dopo. Alla ricerca del plebiscito popolare, il primo ministro e la ministra Boschi avevano inizialmente legato la loro permanenza a palazzo Chigi al voto del 4 dicembre, salvo ricredersi visto lo spostamento del focus dalla riforma alle loro figure e esperienze politiche. Anche a causa di questa personalizzazione, la campagna referendaria è diventata una battaglia di intensità inedita, con altrettante inedite sinergie fra le forze politiche in gioco, soprattutto sul fronte del No.
Insomma, tante sono state le riforme, ma anche tanti gli annunci disattesi o dimenticati che ne hanno diluito la rilevanza e la prominenza, associando all’esecutivo, in modo ingeneroso, una predilezione della quantità sulla qualità e dell’apparenza sulla sostanza. Nonostante l’esito referendario negativo con cui ci siamo svegliati (o andati a dormire) il mattino del 5 dicembre, e nonostante le dimissioni, è innegabile che il governo Renzi avrà un’eredità strutturale importante. Eredità che, per essere giudicata pienamente e oltre l’emotività delle circostanze attuali, avrà bisogno di ben più di mille giorni.
Un commento
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Renzi (come Letta) ha campato di rendita sul risanamento mastodontico effettuato nella scorsa legislatura (330 mld cumulati) per 4/5 da Berlusconi (267 mld cumulati), in maniera scandalosamente iniqua, e per 1/5 da Monti (63 mld cumulati), in maniera più equa (vedi IMU, patrimonialina sui depositi, TTF). E le cui misure strutturali valgono tuttora (vedi, in particolare, la severissima riforma delle pensioni SACCONI, 2010 e 2011, e la riforma delle pensioni Fornero, 2011), che procurano risparmi di una ventina di miliardi l’anno e che hanno reso possibile la politica monetaria espansiva della BCE, che procura un risparmio di circa 20 mld annui di interessi passivi. Anche nei riguardi dell’Unione europea Renzi ha fatto solo scena: l’Italia è il Paese che rispetta di più il parametro deficit/Pil (durante la crisi, gli altri Paesi se ne sono altamente fregati delle richieste dell’UE; come ora nella ripartizione dei migranti); ha l’avanzo primario più alto, che toglie risorse all’economia reale e perpetua la recessione-stagnazione. Renzi è stato solo interessato ad ottenere dall’UE una miserevole flessibilità, da distribuire e sprecare in mance elettorali e non in provvedimenti più idonei (vedi ultimo rapporto OCSE, che suggerisce di investire in opere pubbliche in settori mirati), tesi alla crescita economica, che intervengano congruamente sul denominatore del rapporto debito/Pil, che è l’unico che conta per la valutazione della sostenibilità del debito pubblico. Infine, last but not least, l’anno prossimo è prevista l’approvazione dell’inserimento dello stupido (copyright Prodi) fiscal compact nei trattati UE, che come si vede impedisce politiche economiche anticicliche: l’Italia dovrà dire NO! Però, intanto, Renzi l’aveva confermato nell’art. 81 della “sua” Costituzione, bocciata sonoramente dal popolo italiano.
Citazione: “uno strumento unico di lotta alla povertà, assente ormai solo da noi e in Grecia”. In Grecia, è stato introdotto recentemente; non c’è in Italia e Ungheria.