Riforma della giustizia: la grande assente dal dibattito pubblico
Riforma della giustizia: la grande assente dal dibattito pubblico
Era gennaio 2019, il covid19 era ancora solo il “virus cinese” e il lockdown sembrava qualcosa che solo Huan poteva imporre ai suoi cittadini. Il governo aveva altre grane da risolvere, primo fra tutti il nodo della prescrizione, con lo scontro tra Italia Viva e il Movimento 5 Stelle. In ballo c’era anche la riforma della giustizia, con la velocizzazione dei tempi dei processi, misura resa necessaria dall’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.
L’esplosione della pandemia ha poi monopolizzato l’agenda politica del governo, prima con le misure sanitarie di contenimento, poi con quelle economiche per la ripartenza. Intanto la riforma della giustizia è scomparsa dai radar del dibattito pubblico.
Eppure, difficilmente l’Italia potrà ripartire senza una velocizzazione dei tempi del processo e un generale efficientamento del sistema giustizia. Sembrano termini econocratici, efficienza e velocizzazione, lontani dal cittadino e cari solo a un’élite neoliberista che prova piacere a controllare “numerini”, parametri e indici. Non è così.
Che il sistema giustizia in Italia sia fuori dalla storia è un dato di fatto. Eccessivi burocratismi, autoreferenziale formalità, scarso utilizzo delle nuove tecnologie e dello smart working sono solo alcune delle caratteristiche di un sistema imbalsamato che non riesce in alcun modo a stare al passo con la storia.
Il confronto con gli altri paesi
E’ sufficiente analizzare i tempi del processo in Italia e confrontarli con quelli degli altri paesi per capire che non possiamo più permetterci una giustizia che in quanto ai tempi del processo è da terzo mondo.
Analizzando il rapporto “European judicial systems Efficiency and quality of justice” del 2018 redatto dalla Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia scopriamo che il processo civile in Italia dura in media otto anni mentre la media dei paesi del Consiglio d’Europa è di appena due anni. Siamo il paese che insieme alla Grecia presenta i tempi del processo più lunghi.
Il processo amministrativo (che in Italia ha solo due gradi di giudizio, TAR e Consiglio di Stato) dura in media cinque anni. Nel confronto con gli altri paesi siamo quart’ultimi. Solo a Cipro, in Grecia e in Portogallo i processi durano di più.
Più rapido è il processo penale, che in Italia dura in media tre anni e nove mesi. Ciononostante, se ci confrontiamo con gli altri paesi siamo ancora tra i peggiori. La durata media di un processo penale nel resto d’Europa è infatti poco più di un anno.
Occorre notare che l’Italia è stata confrontata con i paesi del Consiglio d’Europa e non solo con quelli dell’Unione Europea. Questo significa che la giustizia in Italia è più lenta non solo di quella degli altri paesi sviluppati ma anche di quella di paesi in via di sviluppo come l’Albania, la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaijan. Si tratta di paesi, questi ultimi, che hanno un PIL pro capite otto volte inferiore a quello italiano.
Non ci può essere crescita se la giustizia è così lenta
La ripartenza del dopo lockdown non potrà avvenire in un paese che presenta un sistema giustizia così lento. Questo perché i tempi dei processi hanno un forte impatto sulla crescita, come mostra gran parte della letteratura economica. Un paese in cui i processi durano così tanto è un paese in cui la giustizia funziona solo per chi dispone delle risorse economiche adeguate ad affrontare processi così lunghi, creando un’inaccettabile diseguaglianza. Ma è anche un paese in cui le imprese non investono per la paura di esser trascinate in processi infiniti in cui si ottiene giustizia quando spesso è ormai troppo tardi.
Con il Recovery Fund abbiamo un’opportunità senza precedenti di riforma dei processi e, più in generale, del sistema giustizia tout court, non possiamo permetterci di sprecarla. Per la prima volta, infatti, non siamo vincolati a riforme a “costo zero” ma abbiamo la possibilità di investire massicciamente per una giustizia più veloce, efficiente e digitale. Cominciamo a parlarne.
Alessandro Fabbri
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