Aziende, professionisti, ormai anche Nazioni. La reputazione è tutto

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14 Marzo 2020

Vent’anni per costruirla, cinque minuti per distruggerla. È la reputazione secondo il finanziere Warren Buffett. Che aveva ragione alla grande ma non aveva previsto l’avvento dei social: adesso, per sbriciolare il buon nome di una persona, basta il tempo dell’invio di un tweet inopportuno o di una foto imbarazzante. Clic, fatto, addio.

Gli esempi di figuracce mediatiche/online non si contano, l’ultimo scivolone è di Christine Lagarde e non basterà tutto il mandato di colei che ha preso il posto di Mario Draghi – assai probabilmente – per recuperare il danno d’immagine connesso alla crisi reputazionale.
Ma non c’è solo Madame Lagarde, anzi. La coppia glamour di super-ricchi che festeggia il compleanno al supermarket e viene accusata dai fan di sprecare il cibo. La parlamentare che posta lo scatto a un evento con 60 persone in tempi di isolamento da coronavirus. Il grande fotografo che minimizza la tragedia del Ponte Morandi e viene costretto dall’indignazione popolare a un pubblico autodafé. Il virologo di fama mondiale che dopo aver polemizzato con una collega pubblica un libro sul coronavirus e, a scanso di equivoci, deve precisare urbi et orbi che i proventi saranno devoluti alla ricerca scientifica.

Attenzione, in gioco non c’è (solo) la sofferenza di ego ipertrofici: sul filo della reputazione ballano molti, molti quattrini, come spiega Andrea Camaiora, Ceo di The Skill, studio di comunicazione specializzato in crisis communication e reputation management:Parliamo di quello che è oggi il più importante tra gli asset intangibili di un’impresa e che vale – secondo il World Economic Forum – il 25% del relativo valore di mercato. Nel mondo contemporaneo non basta la qualità del prodotto o del servizio offerto a fare la differenza, occorre offrire un’immagine positiva costruita e ragionata in modo strategico”.
Ma, come abbiamo detto, il maquillage è solo la prima mossa. Poi c’è la reazione alla gaffe, alla sciagurata circostanza, all’errore che scatena la shitstorm. Anche se magari è soltanto una velenosa fake news. Come difendersi allora? “Il primo strumento è senza dubbio lo storytellingprosegue Camaiora – perché l’inserimento di un nome all’interno di una storia vera e propria, di una narrazione fondata sulla realtà, vera e sincera che ne esalti i valori, gli ideali e gli obiettivi, affabulando e coinvolgendo i clienti come il pubblico di una rappresentazione”.

Davvero una crisi reputazionale si può prevedere? Vaste programme, direbbe De Gaulle. “Un buon esperto di comunicazione sottolinea il Ceo di The Skill – può però mappare i rischi, valutarne la probabilità, studiare accorgimenti per ridurre la probabilità di crisi e infine, qualora si verifichi il fattaccio, mitigarne gli effetti disastrosi”.

Prima un costante monitoraggio dei mediaavvisa Camaiora, che è anche consulente tecnico del Tribunale di Roma – e poi una robusta campagna di contro-narrazione, che però costa. Per questo, anche in questo campo, prevenire è meglio che curare. Solo così se ne può uscire con un’immagine se non indenne comunque ripristinata. Ed è essenziale procedere alla sostituzione chirurgica delle notizie. Tutte attività che richiedono l’intervento di professionisti del settore, in Italia si contano ancora sulle dita di una mano, e che possono richiedere ingenti spese”.

Insomma, la reputazione va trattata come una fiamma: basta un po’ di cura per mantenerla accesa, farla divampare può essere eccitante ma rischioso, una volta spenta però riaccenderla costerà sudore e fatica.

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CAT: Imprenditori, Media

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