Facciamo ripartire l’Italia con il manifatturiero e le “startup concrete”

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22 Novembre 2016

L’Italia è il paese del fare. E del saper fare. Per capirlo basta farsi un giro in qualsiasi centro storico italiano, o visitare uno dei capannoni che costellano (ancora) la Pianura padana. Dalle botteghe artigiane di Napoli al distretto aerospaziale pugliese, dalla Motor Valley emiliano-romagnola al distretto vicentino del gioiello, gli italiani hanno un tesoro nelle mani. Non a caso il settore manifatturiero resta il pilastro della nostra economia, e vale il 15% del PIL (in Francia, tanto per capirci, raggiunge a stento l’11%, nel Regno Unito il 10%: solo i tedeschi ci battono).

Ecco perché mi ha sempre stupito la scarsa attenzione per le startup hardware, a fronte del fortissimo interesse per quelle software. Esiste però chi va controcorrente. Uno di questi, che voglio raccontare in questo mio blogpost, è Jari Ognibeni, 34nne fondatore di IndustrioVentures, acceleratore di “startup concrete”.

siliconvalley

Silicon Valley foto di Coolcaeser

Bisogna dire che Ognibeni ha un background d’eccezione: studi a Milano (la Bocconi prima, la Cattolica poi) e all’estero, dal Portogallo alla Silicon Valley, esperienze di lavoro a eBay Italia e ad Habitech, consorzio trentino di 200 e passa aziende attivo in settori come il sustainable building.

«Habitech è stata una grande esperienza. È lì che ho iniziato a capire cosa significa fare PMI in Italia, e soprattutto è lì che ho cominciato davvero a parlare la lingua degli imprenditori (che talvolta non è l’italiano o l’inglese, ma il dialetto). Mi sono fatto le ossa visitando officine e capannoni, e interagendo ogni giorno con chi fa impresa. Questo è stato il punto di partenza per costruirmi dei nuovi modelli di sviluppo dell’innovazione e di finanziamento di processi di fare impresa e produrre valore, specie per startup e nuove aziende».

Ognibeni ha un obiettivo: contribuire a cambiare il modo di fare manifattura in Italia, creando nuove aziende di successo. Se si chiacchiera un po’ con lui, come ha fatto il sottoscritto, si scopre un trentenne che non ha dimenticato i fasti dell’Italia del boom, quella del polipropilene isotattico e del Programma 101 della Olivetti, della prima azienda spaziale del mondo e del primo satellite europeo. E ora? È vero, rimaniamo ancora un grande paese manifatturiero, ma arranchiamo dietro alla Germania e, soprattutto, ai competitor del Far East. E del resto l’acceleratore, dice lui, è nata proprio con questo scopo: aiutare i migliori talenti a lanciare la loro azienda hardware.

«Siamo un hardware accelerator, fondato da Alfredo Maglione, Alessio Romani, Alberto Gasperi e dal sottoscritto. Si tratta di un acceleratore che investe in team con sede in Italia che vogliono lanciare un’azienda di prodotto in settori reali come la robotica, l’agtech, la mobility e i connected devices. Investiamo molto più che capitale: il nostro è un approccio a tutto campo hands-on, e offriamo supporto manageriale, mentorship sullo sviluppo sia del prodotto che del business, e accesso a un incredibile network di partner industriali in Italia e all’estero che aiutano i team nella prototipazione e scale-up del loro prodotto».

Le startup accelerate realizzano prodotti tangibili, “cose che ti fanno male se ti cadono sui piedi”. Operano nei settori più eterogenei, dall’outdoor alla robotica, passando per l’agritech e l’Internet delle cose, ma riescono tutte ad arrivare in tempi rapidi a fatturati interessanti (mediamente 250mila euro entro 12 mesi dal lancio). Insomma, sono giovani rappresentanti di quella real economy che Ognibeni dice di preferire alla app economy tanto decantata da tutti.

«Noi investiamo in “startup concrete” e lo fa credendo che sia possibile lanciare dall’Italia progetti di successo, portando persone di talento a lavorare in un habitat che prima di essere manifatturiero e industriale è in primis culturale. La “provincia italiana” è fatta di storia, che è anche storia d’impresa e di vivere impresa, sempre con grande concretezza. Ed è questo il maggiore asset dell’Italia, e quello su cui noi puntiamo per attrarre talenti e costruire aziende di successo».

Ognibeni non si rassegna al declino economico dell’Italia. Ha fiducia nelle capacità del Paese di superare le difficoltà, grazie alla quantità incredibile di talenti che ci sono nelle università, nelle PMI e nelle startup italiane.

«Come può un paese ricco di storia, cultura e talenti come l’Italia, che ha prodotto grandi imprese di successo quali Olivetti, Ferrero, Luxottica e Ferrari, cessare di essere quella fucina di brand straordinari che il mondo ha conosciuto? Guardi la classifica FT Global 500 2015: le aziende italiane presenti sono 6; i Paesi Bassi e la Spagna ne hanno 7 a testa, la Francia 24, non parliamo poi della Germania! Le sembra accettabile?»

Essendo un acceleratore, alle startup incubate si danno risorse, competenze e capacità produttiva, il tutto concentrato in un unico luogo. Si tratta dunque di un investimento misto, fatto sia di cash che di beni in-kind, e include spazi per uffici e officine, e l’accesso a una rete di oltre 70 aziende partner per lo sviluppo di prodotto.

«Il nostro programma di accelerazione dura 6 mesi, e in questi 6 mesi aiutiamo il team a realizzare il primo batch di prodotto e ad acquisire i primi clienti. Poi il nostro focus si sposta verso la ricerca di partner industriali e finanziatori che possano dare continuità alla startup».

I numeri sono dalla sua. In neanche 3 anni di attività ha totalizzato 2 exit davvero redditizie, 1 milione di euro investito, 14 brevetti depositati, 30 posti di lavoro creati, 2,5 milioni di euro di capitale di follow-on raccolti dalle startup partecipate. Numeri che possono sembrare piccoli a chi sogna la Silicon Valley, ma che nel nostro paese sono rari.

Durante la chiacchierata Ognibeni ammette che fare impresa in Italia non è proprio una passeggiata. Nel ranking della Banca Mondiale su quanto è facile fare business nel mondo, al primo posto c’è la Nuova Zelanda, all’ottavo gli USA. L’Italia, invece, è al 50° posto, dopo il Messico e la Serbia. Un simile piazzamento, dice lui, non è all’altezza né della nostra storia né del nostro potenziale, e contiene un fattore culturale di avversione al rischio. Interessante poi quello che dice sul funding per le startup:

«In Italia la leva finanziaria è in mano ai fondi di private equity, alle holding e ai family office, agli high-net worth individuals. Detto questo, negli ultimi anni sono nati diversi VC, gruppi di BA, e anche l’interesse degli investitori stranieri è cresciuto, si pensi solo a iniziative come Invitalia Ventures, Apple a Napoli, CISCO… Non siamo una startup nation ma le cose stanno migliorando».

Le cose stanno migliorando. È una frase che ripete almeno due volte, nel corso della chiacchierata. Nel 2009, ricorda, chi parlava di startup era trattato come un pazzo, mentre oggi ne parlano tutti. Sta nascendo, tra i giovani, una cultura d’impresa che sino a pochi anni fa non esisteva, e persino il legislatore e le PA si stanno attrezzando. Insomma, qualche motivo per essere ottimisti c’è. O forse sono l’entusiasmo e l’energia di Ognibeni a essere contagiosi. In effetti se gli si chiede qual è il suo sogno, si ha una risposta che la dice lunga sulla sua Weltanschauung.

«Continuare a fare un lavoro che mi entusiasma, aiutando le persone che mi circondano a realizzare i loro progetti e obiettivi. Voglio continuare a lavorare in Italia, crescendo come cittadino di un paese che amo e che voglio contribuire a far conoscere al mondo, attraverso le fantastiche storie dei suoi imprenditori».

TAG: economia, giovani, hardware, manifattura, startup
CAT: manifattura, Startup

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