Un prequel del referendum sulla permanenza nell’Ue. Un modo per anticipare la scelta dei sudditi di Sua Maestà. Viste dall’Europa le elezioni nel Regno Unito, in programma il 7 maggio, si svolgeranno con uno sfondo ben preciso: la consultazione per decidere se restare o meno nell’Unione, già calendarizzata entro il 2017 dal premier in carica, il conservatore David Cameron. Sul versante opposto il candidato dei laburisti, Ed Miliband, ha già annunciato che, nel caso in cui dovesse insediarsi al leggendario numero 10 di Downing Street (sede del primo ministro britannico), non ci sarebbe alcun referendum.
Tutte ipotesi che mettono in fibrillazione Bruxelles con lo sguardo rivolto alla possibile Brexit, la fuoriuscita di Londra dall’Ue. Ma il voto presenta mille sfaccettature, che vanno oltre la dinamica europea. Sarà interessante osservare cosa succederà quando, a urne chiuse, nessuno dei principali pretendenti avrà la maggioranza. Di certo c’è uno spauracchio che si agita per le strade britanniche: gli indipendentisti scozzesi decisivi per il governo a Londra. Un colpo di scena dopo il “no” di Edimburgo alla secessione del settembre 2014.
Ma nella campagna elettorale, l’Unione europa vuol dire anche ‘invasione’ straniera. La Brexit, per le frange più dure della destra, significa mettere severi paletti ai flussi migratori. Il modello immaginato dall’Ukip, e in fondo apprezzato da un fetta dei conservatori di Cameron, è quello australiano: dall’estero devono arrivare solo lavoratori qualificati con un divieto di persone non qualificate. Ma il fronte interno è anche quello più caldo, al centro del dibattito ci sono l’economia e il welfare, con particolare attenzione al sistema sanitario nazionale duramente colpito dai tagli del governo in carica.
I laburisti hanno in parte rispolverato il vecchio credo dell’aumento della tassazione ai ricchi. Tra le proposte più significative c’è l’imposta sulle abitazioni del valore superiore ai oltre 2 milioni di sterline, proprio per finanziare il sistema sanitario a cui dovrebbe essere garantito un investimento pubblico di 2,5 miliardi e mezzo di sterline. Inoltre la sinistra ha messo nero su bianco, sul proprio manifesto programmatico, il congelamento della ‘bolletta energetica’ e l’aumento del salario minimo.
Sul fronte opposto, i conservatori puntano a eliminare il deficit entro la fine della legislatura, obiettivo fallito nel 2015 come era stato promesso. Un traguardo che si somma al taglio delle tasse sul reddito per 30 milioni di persone, insieme al già menzionato referendum sulla permanenza nell’Ue. I Lib-dems, invece, hanno messo sul tavolo punti alternativi, come le leggi sul cambiamento climatico e investimenti pubblici per la scuola, con lo scopo di offrire un servizio migliore ai cittadini. La grande assente, per motivi tattici, resta la politica estera. Il tema è molto scottante sia per i laburisti, che trascinano l’eredità delle guerre di Tony Blair, sia per i conservatori, accusati di non aver saputo gestire il post Gheddafi in Libia. C’è stata qualche schermaglia dopo la recente ecatombe di migranti nel Mediterraneo, ma poi l’attenzione è stata dirottata altrove.
Il conformismo in campagna elettorale rischia di non produrre grossi effetti. Nel Regno Unito si dovrebbe ripetere, salvo clamorosi cambi di scenario, l’anomalia del 2010: un governo di coalizione. Nel terzo secolo, insomma, nemmeno il sistema maggioritario secco a turno unico (vince il seggio chi conquista più voti all’interno del collegio) riesce a garantire una maggioranza monopartitica. La “soglia tecnica” è di 326 seggi, anche se in realtà possono essere sufficienti 323 deputati. Le tabelle dei sondaggi, anche quelli più incoraggianti, raccontano che il numero magico è lontano per tutti.
David Cameron, 48 anni, è il premier uscente e punta a un altro mandato. Poi, secondo quanto ha rivelato, lascerà la leadership dei Tory, il partito conservatore, conquistata nel 2005. Con pazienza ha atteso la fine del ciclo blairiano e ha vinto le elezioni del 2010, ma senza avere la maggioranza assoluta: ha ottenuto solo 306 seggi. L’alleanza con i Lib Dems gli ha comunque garantito i numeri per andare avanti. Durante gli anni da primo ministro ha gestito la crisi economica, portando a una crescita del 2,8% nel 2014 (fonte Eurostat). Le stime della commissione europea sono inoltre di un Pil al +2,6% nel 2015 e +2,4% nel 2016 con la disoccupazione in calo al 5,6% del 2015.
Ed Miliband, 45 anni, ha conquistato la leadership del Labour Party, battendo la concorrenza del fratello maggiore David, a lungo indicato come il vero erede di Tony Blair; forse un’immagine che ha pesato sulla contesa in famiglia. Ed Miliband rappresenta una visione più tradizionale del laburismo che vuole scacciare il fantasma della Terza Via blairiana, ossia la ‘scoperta’ del mercato da parte della sinistra britannica. Nella campagna elettorale del 2015 il candidato laburista ha dovuto forgiare la caratura di premier credibile, per togliersi di dosso il profilo di politico poco incisivo. La base di partenza sono i 258 seggi ottenuti nel 2010 dal suo partito (con Gordon Brown): difficile fare di peggio.
Nick Clegg, 48 anni, si è trasformato da “Obama della Gran Bretagna” a vicepremier silente di Cameron. Nel 2010 è stata la star mediatica delle elezioni, alimentando addirittura l’illusione di diventare la seconda forza politica sull’isola. Il leader dei Liberal democrats (Lib Dems) vuole restare l’ago della bilancia, ma sul suo conto pesa un macigno: non ha incarnato quel cambiamento che sembrava potesse veicolare. In particolare ha deluso l’elettorato europeista che lo ha visto troppo succube della linea dettata dal primo ministro. Difficilmente Clegg confermerà i 57 seggi di 5 anni fa.
Nigel Farage, 50 anni, è il vulcanico leader della destra nazionalista dell’Ukip (Uk Inpendence Party). La sua campagna elettorale è stata all’insegna del populismo e dell’euroscetticismo, condizionando le posizioni del Tory. Nel 2010 l’Ukip non aveva deputati, ma attualmente ha 2 rappresentanti nella Camera dei Comuni: si tratta di ex rappresentanti dei Tory che sono passati nelle fila dell’Ukip (per conservare il seggio hanno comunque vinto le elezioni organizzate appositamente nei collegi di appartenenza). Farage ha tutto da guadagnare dalle elezioni del 7 maggio.
Nicola Sturgeon, 44 anni, è il primo ministro scozzese e leader dello Scottish National Party (Snp), che rivendica una maggiore autonomia della Scozia e punta a fare il pieno nei 59 collegi scozzesi. Di fatto non è candidata al ruolo di premier, ma rivendica una maggiore devoluzione dei poteri a Edimburgo. Attualmente ha 6 eletti nella Camera dei Comuni.
Infine ci sono Natalie Bennett, 49 anni, candidata dei Verdi, che spera di portare i Greens alla Camera di Comuni anche con un solo rappresentante, e Leanne Woods, 43 anni, leader di Plaid Cymru, gli indipendentisti gallesi, che puntano a vincere almeno in 5 dei 40 collegi dislocati in Galles, migliorando il risultato di 3 parlamentari conquistati nel 2010.
A pochi giorni dal voto il quadro ha assunto una precisa fisionomia: i conservatori di David Cameron sono in testa con circa il 34% dei voti su scala nazionale, a meno di un punto di distanza inseguono i laburisti di Miliband. Il trend di rimonta del partito del premier è testimoniato dal poll tracker della Bbc. Un anno fa la situazione vedeva il Labour al 35% e i Tory al 31%, mentre a dicembre era 33% contro 31%. Una certezza è rappresentata dal netto ridimensionamento dell’Ukip, poco al di sotto del 14%, un secco -3% rispetto al mese di gennaio. I Lib dems si attestano tra l’8 e il 9% e i Greens al 5%.
Per quanto riguarda il calcolo del seggi, il sito seat calcolator di may2015.com dà i conservatori a quota 273 deputati e i laburisti a 271. Per il quotidiano The Guardian lo scenario cambia di un soffio con 274 a 270, e rende comunque impossibile la formazione di una maggioranza monopartitica. Il tanto discusso Ukip, alla fine, strapperà al massimo 3 seggi. Ciononostante Farage potrà rivendicare di aver “spinto a destra” Cameron in materia di immigrazione e politiche europee. Il sistema elettorale maggioritario favorisce la rappresentanza del Lib dems indicati sui 25/26 seggi. Una quota che renderà comunque Nick Clegg ininfluente per un’alleanza di governo.
La vera variabile è quindi lo Snp che secondo gli ultimi rilevamenti può ottenere 57 seggi sui 59 in Scozia, lasciando le briciole (un seggio a testa per Labour e Lib dems) agli altri. In ogni caso appare improbabile che scenda sotto la soglia dei 55. Insomma, dopo il referendum del “No” all’indipendenza arriva la richiesta di maggiori potere da parte di Edimburgo. E avviene nelle elezioni per il rinnovo della Camera del Comuni.
Nella campagna elettorale è stato questo il vero cruccio di Ed Miliband, tanto che molti analisti hanno sottolineato come il suo vero avversario fosse la brillante Nicola Sturgeon, non David Cameron. Storicamente, infatti, la Scozia era un feudo laburista: lo Snp aveva una manciata (tra i 5 e i 6) di deputati nella Camera dei Comuni. Sul consenso del Labour, insomma, grava una scelta pesante: l’attivismo del “no” al referendum della secessione della Scozia.
Un governo a trazione scozzese?
Il sistema maggioritario, un tempo granitica certezza della politica del Regno Unito, non basta più a dare stabilità politica. Alla chiusura delle urne bisognerà avviare le consultazioni per la formazione della coalizione. Se il verdetto delle elezioni del 7 maggio dovessero confermare le previsioni dei sondaggi, l’asse Tory-Lib dems non avrebbe i numeri per governare, nemmeno ‘imbarcando’ altre forze minori locali, come i nordirlandesi del Democratic Unionist Party (Dup) che dovrebbe conquistare 8/9 seggi dei 18 assegnati in Nord Irlanda. Il totale si fermerebbe sotto i 310 rappresentanti, lontano dai 326 (o 323) necessari. Cameron potrà restare primo ministro solo con una “grossa coalizione” insieme agli avversari del Labour. Un’ipotesi esclusa da tutti: è più una suggestione europea che un’eventualità concreta. Perciò i Tory devono cercare di smentire le previsioni e magari sperare in un risultato migliore rispetto alle attese dei possibili alleati.
La situazione per Miliband è molto diversa, ma altrettanto problematica. Il premier scozzese Sturgeon aveva già offerto a febbraio la disponibilità a formare «un’alleanza progressista», magari con un appoggio esterno da parte dello Snp, che così non entrerebbe direttamente nel governo. Se le proiezioni dovessero rivelarsi veritiere, i laburisti potrebbero conseguire una maggioranza ristrettissima grazie all’intesa con lo Snp. Ma il tema è spinoso e i vertici del Labour hanno escluso l’intesa, ampiamente cavalcata dalla propaganda di Cameron.
Ed Balls, esponente di spicco del partito di Miliband, ha rimarcato le differenze, sostenendo che gli indipendentisti lavorerebbero solo a un altro referendum. Quindi ha escluso la voce di un accordo. E per capire quanto sia ‘scioccante’ l’eventuale alleanza con gli indipendentisti scozzesi, il segretario britannico alla Difesa, il conservatore Michael Fallon, sul Times ha usato toni apocalittici, parlando di «pericolo per la sicurezza britannica» in caso di asse Lab-Snp. Eppure sul versante europeo, questa minaccia è sempre meno terribile rispetto al successo della destra di un Cameron somigliante a Farage che porterebbe il Regno Unito dritto al referendum.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.