Altre/i giovani: secondo appuntamento con Chiara Evangelista

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4 Agosto 2021

Chi c’è dietro l’etichetta “giovani”? Quali sono le facce reali che troviamo dentro la dicitura “le nuove generazioni”?

I discorsi intorno a questi due concetti tendono a mostrarci con prepotenza le zone d’ombre, le falle di quelli e quelle che saranno la classe adulta della società di domani: senza fare distinzioni, non vengono più riconosciute le peculiarità e i talenti di ognuno, ma ciascuno di loro è costretto a portare la maschera imposta, omologata e omologante, del capro espiatorio, del grande fallimento, valido di fatto solo per alcuni, come in ogni epoca e come in ogni fascia anagrafica.

Attraverso una serie di dialoghi, inaugurati con l’intervista a LIET, provo a mostrarvi l’altro lato della medaglia, il lato fatto di ragazze e ragazzi che, nonostante l’elevata incertezza sociale nella quale si trovano a crescere e tutte le difficoltà proprie della gioventù di ogni tempo, studiano, si impegnano e, soprattutto, provano ancora a crederci.

La seconda ospite è Chiara Evangelista, classe 1997.

Chiara Evangelista (Lecce, 1997) studia giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha esordito nel 2017 con la sua prima silloge poetica In medias res, edita da I Quaderni del Bardo Edizioni, che si è fatta notare dal pubblico e dalla critica. Nel 2019 la sua seconda raccolta Più probabile che non, edita sempre da I Quaderni del Bardo Edizioni, è tra i libri più venduti di poesia nel mercato della piccola-media editoria. Collabora con Treccani, L’intellettuale Dissidente e con il blog di poesia del Corriere della Sera a cura di Ottavio Rossani.

 

Cara Chiara, vorrei innanzitutto ti presentassi e, soprattutto, ci raccontassi quale e come è stato il tuo primo appuntamento con la poesia.

Da dove arriva In media res (I quaderni del Bardo 2017)? Chi è la Chiara che scrive questi versi?

È una Chiara adolescenziale, che smozzica versi sui fogli a quadretti nelle ore di matematica tra i banchi di scuola e nell’intervallo li fa leggere alle sue amiche. La scuola per me è stato un laboratorio, l’humus in cui è attecchito l’amore per la letteratura. Ma non avevo mai pensato di pubblicare. A 18 anni tra gli scaffali di una libreria indipendente di Lecce incontrai casualmente quello che sarebbe diventato il mio editore, Stefano Donno. Stefano aveva da poco fondato la sua casa editrice, i Quaderni del Bardo Edizioni, era in cerca di autori. La libraia mi segnalò a lui perché potessi sottoporgli i miei versi e da allora iniziammo il percorso che mi avrebbe poi portato alla realizzazione del mio libello di esordio In medias res.  È avvenuto tutto casualmente.

Una delle caratteristiche della tua raccolta Più probabile che non (I quaderni del Bardo 2019) è l’uso consapevole e sofisticato che fai della parola; in una società dove il verbum si muove tra assenza e abuso, quale pensi sia la sua funzione e il suo ruolo oggi?

A volte mi fermo a pensare che siamo gli unici esseri sulla Terra capaci di scrivere. Così come penso talvolta ai “signa” rupestri utilizzati dagli uomini primitivi per tenere il conto delle provviste o semplicemente per testimoniare il loro passaggio, la propria presenza. Oggi l’abuso della parola ha portato a una svalutazione degli strati semantici della parola stessa. Il verbo è ridotto ad un guscio vuoto, un mezzo non disciplinato per veicolare il pensiero. Ma ogni mezzo ha bisogno di regole… «Bisogna assomigliare alle parole che si dicono» per dirla alla Stefano Benni. Per me questo è stato sempre un richiamo a sentirmi responsabile di ogni sillaba che fuoriesce dalla mia bocca. Se la parola ferisce più di una spada, son felice che si pensi a introdurre norme che disciplinano l’uso delle parole. Un esempio in tal senso potrebbe essere la legge per contrastare il fenomeno del cyberbullismo entrata in vigore nel 2017. Ecco, credo che, in questa oscillazione tra assenza e abuso del verbum, oggi serva tornare a sentirsi responsabili delle proprie parole.

Accanto alla poesia, nella tua vita professionale c’è anche il giornalismo: da dove nasce questa passione e come si può trasformare una passione in lavoro?

Credo che il giornalismo abbia a che fare con un modo d’essere piuttosto che con un modo di fare. Giancarlo Siani diceva che è avvertire sulla propria pelle le ingiustizie del mondo. E mia madre mi racconta che a 6 anni già mi battevo perché le meduse pescate dagli altri bambini con il retino non venissero insabbiate e uccise. Poi crescendo le “battaglie” si sono estese non solo al mondo animale, diciamo! Crescendo, ho potuto riconoscere altre forme di ingiustizia: dal bullismo allo sfruttamento, dal precariato alle discriminazioni sociali e sessuali. Questo poi mi ha portato a scegliere giurisprudenza. Il giornalismo mi permette di informare i miei “venticinque lettori” delle realtà dimenticate, delle voci non ascoltate e delle questioni che si vorrebbe fossero insabbiate. Trasformare una passione in lavoro? Sono troppo giovane per dar consigli e non ho idea di cosa mi riserverà il futuro. Spero però di poter continuare a fare quello che amo al meglio e di poter rendere omaggio a questo meraviglioso mestiere che oggigiorno sta attraversando un momento di forte turbolenza.

Tra le tante storie che il giornalismo ti ha portato a conoscere, ce n’è una che ti è rimasta particolarmente impressa? La vorresti condividere con noi?

Ecco, il confronto penso sia la parte più bella di questo lavoro. Ogni volta che incontro una storia, perché per me ogni persona è una storia, me la vivo come se la sua vita fosse la mia. Questo “sentire” implica che alcune notti dormo poco perché rimugino sui particolari che mi vengono raccontati o che mi senta responsabile anche di situazioni che non dipendono da me ma che mi coinvolgono talmente tanto da provare a fare qualcosa per cambiarle. Ragion per cui mi è difficile scegliere un incontro particolarmente significativo. Mi porto dentro gli occhi lucidi di un pensionato che non arriva a fine mese, le parole svilite di contadini stanchi delle razzie nei campi che avvengono in Puglia. Credo che fare questo mestiere richieda empatia, ovvero che si entri in contatto e si viva il pathos altrui. Ma soprattutto non ci si sveste mai dei panni di giornalista, come dicevo, è un modo d’essere. Ricordo che una volta, in pausa studio, uscì con alcuni amici per una breve passeggiata. C’imbattemmo casualmente in Cheick, un uomo senegalese che dipingeva magnificamente utilizzando la sabbia. Improvvisai un’intervista su due piedi. Ci raccontò della sua esperienza presso un’Accademia di belle arti in Francia, del suo sogno di lavorare in Italia ma anche di quanto gli mancasse la sua terra. Ogni storia che racconto mi arricchisce, mi fa comprendere meglio il mondo e il mio posto nel mondo.

Sia il giornalismo che la poesia sono state coinvolti, in maniera differente, dalla rivoluzione digitale: qual è la tua opinione a riguardo, dal momento che vivi entrambe queste realtà dal di dentro?

Non credo che il problema sia il digitale di per sé ma l’immediatezza che caratterizza il digitale. Il poter accedere alle notizie o il poter fruire di contenuti letterari così facilmente credo che comporti talvolta lo spegnimento della sete da parte dei lettori. Assorbiamo senza recepire. Nonché la frenesia di voler pubblicare porta chi scrive a non puntare sulla qualità. Ma d’altro canto la rete ha permesso di unire, condividere, avvicinarsi. Come dicevo prima, la rete è un mezzo. E spetta all’uomo saperlo padroneggiare. Non viceversa.

TAG: Chiara Evangelista, giornalismo, I Quaderni del Bardo Edizioni, intervista, poesia
CAT: Letteratura

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