Ermanno Rea, grande investigatore dei nostri mali storici e spirituali
Giunge la notizia della morte a 89 anni del grande scrittore Ermanno Rea (da non confondere con l’altro fuoriclasse delle nostre Lettere, don Mimì, Domenico Rea).
La mente corre ai due suoi libri che ho letto con intensa passione e grande soddisfazione intellettuale. Non i suoi capolavori, su cui si è fermato il consenso generale, ossia “Mistero napoletano”, 1995 (investigazione narrativa sul suicidio di una giornalista comunista dell’Unità) e “La dismissione”, 2002 (sullo smantellamento dell’impianto siderurgico di Bagnoli), ma due opere laterali della sua produzione, eppure intense e delucidative del suo modo di operare: investigazione giornalistica colta e vis polemica da intellettuale laico, “estremista” dello spirito.
Parlo de “Il Po si racconta” (1990 e 1996) e de “La fabbrica dell’obbedienza” (2011)
Del primo riporto la lettura fattane appena uscì presso il Saggiatore (1996), del secondo riprendo il mio ebook per tirarne le sottolineature.
Il Po si racconta – Il Saggiatore, Milano, 1996.
«È stato Dio o è stato l’uomo a disporre le cose come oggi le vediamo?», si chiedeva Gustave Flaubert in quel singolare libro “Attraverso i campi e lungo i greti”, che raccoglie le annotazioni sul viaggio condotto tra Turenna e Bretagna.
La domanda flaubertiana echeggia in sottofondo anche nel libro di Ermanno Rea, cui il titolo del libro dello scrittore normanno ben si attaglierebbe.
Attraverso i campi e lungo i greti del Po dunque, la scrittura di Rea raccoglie un’esperienza, quella del sopralluogo investigativo, che è diventata sempre più rara anche nell’odeporica (letteratura di viaggio), e che pure le dovrebbe essere consustanziale. Troppi libri di viaggio, da fermi, autour de ma chambre, si scrivono infatti oggi, e per ricordare qualcosa di analogo al lavoro di Rea bisogna andare molto indietro con la memoria, ad una lontana inchiesta televisiva di Mario Soldati condotta peraltro negli stessi luoghi prescelti da Rea. Oggi al sopralluogo si aggiunge la preoccupazione di lanciare uno sguardo ricognitivo su paesaggi, luoghi, persone, prima che tutto venga travolto dall’impeto dello sviluppo e dalla fretta rapinosa dei tempi.
La “regione” prescelta da Rea, la Padania, se ha confini non solamente topografici, ma anche, in senso più lato, culturali, mentali, come in effetti ha, va oltre la mera connotazione geografica, per diventare un “luogo dell’anima e della mente”, una Noosfera, come la perduta Brianza per Gadda, e dunque un luogo aperto alla fruizione, alla cura e all’ amore di tutti coloro che lo vivono e lo comprendono. Anche di un napoletano come Rea.
Nell’intento di dirimere in un’epoca e in luogo, il bacino del Po, dove più che altrove la Civiltà e la Natura combattono le ultime battaglie che lasciano entrambe stremate, ciò che è lascito della creazione e ciò che è frutto della manomissione umana; tra molti, troppi, scempi antropici, ma anche tra tanti, sorprendenti e intatti angoli della creazione, Rea ci dà una Padania che è quella che è sempre stata ed è tuttora, prima che diventasse un’ossessione geo-etno-politica identitaria: un vitalissimo bacino socioeconomico fra i primi al mondo, un formidabile sito dalle omogenee e strette rispondenze socioculturali, un posto dove la Storia è rimasta impigliata tra i rami dei boschi cedui e dei pioppeti (si pensi alle magiche Sabbioneta, Colorno, Ferrara, Pomposa), ma anche un luogo dalle intense malie, una Noosfera dicevamo, per i tanti che ci vivono, nati dentro e fuori i suoi confini.
La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, Milano, Feltrinelli, 2011
Questo volume è un saggio, storico e demopsicologico insieme, teso a individuare il punto d’origine della nostra arrendevolezza e sottomissione intellettuale di italiani verso il pensiero unico delle dittature spirituali (Controriforma) e politiche (fascismo) e della conseguente perdita dello spirito critico. È una indagine su “come siamo fatti. Delle oscure e torbide ragioni che ci inducono – cittadini sempre più privi di senso di responsabilità civile – ad accordarci plaudenti al despota di turno”. (Personalmente avrei aggiunto anche la sottomissione acritica alle dittature ideologiche astratte e pervarsive, che-spiegano-tutto,-il-cielo-e-la-terra, il-passato-e- il- futuro. Ma a questa “dittatura” Ermanno Rea sfuggì da giovane, a seguito dei fatti d’Ungheria, non rinnovando la tessera del PCI seppur in seguito indirizzando sempre la propria attenzione a questo fecondissimo universo formativo della propria giovinezza).
Andando al cuore del problema, per Ermanno Rea il punto di avvio della “fabbrica dell’obbedienza” è la Controriforma. È in quel torno di tempo che avviene la spoliazione, per mano di “una teocrazia tra le più ciniche e violente mai esistite”, dello spirito italiano che aveva avuto al sua efflorescenza con il Rinascimento
La questione del momento in cui si solidificherebbe storicamente il “carattere nazionale” italiano con i suoi tratti mentali-culturali relativamente invariati nella longue durée (che sono: prevalenza della cultura orale su quella scritta; furbizia come disallineamento tra pensieri parole e opere; conformismo intellettuale; cinismo come partecipazione solo di facciata ai principi; prevalenza della devozione sulla fede, della cerimonia sull’atto spirituale interiore; in tema di giustizia: esasperato casismo gesuitico e conseguente giurisprudenza policroma perennemente oscillante tra inquisizione e perdonismo, ecc. ecc.) è tema del grande dibattito intellettuale che occupa schiere di letterati e saggisti almeno a partire dall’Unità d’Italia e che forse non è stato vivisezionato come si deve nei suoi punti sintomatici o adeguatamente catalogato. Tuttavia sia il romanzo “I promessi sposi” che saggi come quello di Sismonde de Sismondi “Storia delle repubbliche italiane”, redatti entrambi nelle prime decadi dell’800, tendono a indicare la “fissione” di tale carattere proprio con la Controriforma, con l’epoca della “fabbrica dell’obbedienza” di Rea; l’epoca, da un lato, del manzoniano “sopire, troncare”, dello smussare gli spigoli acuti del dissenso, e dall’altro, con l’introduzione del sacramento della Penitenza, segnalato da Sismondi come causa dell’affievolimento dello spirito pubblico degli italiani dovuto ai lavacri periodici della coscienza operati con la confessione.
Ermanno Rea ha presente tutto l’intricato dibattito sulla questione in cui la sua tesi si inscrive, e non gli sfugge pertanto l’obiezione posta nientemeno che da Nietzsche (in “Umano troppo umano”) che nega alla Riforma, come fanno i suoi laudatori, il merito di avere avviato la modernità. Tutt’altro: non è con la Riforma, secondo Nietzsche, che nasce il mondo moderno, ma (sulla scia degli studi di Burckhardt suo amico) proprio con il Rinascimento italiano contro cui la Riforma fu in opposizione. Per Nietzsche, invero, la Riforma gettò l’inverno nei cuori dei tedeschi e si manifestò «come un’energica protesta di spiriti arretrati, che non si erano ancora affatto saziati della visione medievale del mondo e che avvertirono i sintomi del suo dissolversi, la straordinaria superficializzazione ed esteriorizzazione della vita religiosa, con profondo abbattimento, invece che con giubilo. Con la loro nordica forza e caparbietà, essi respinsero gli uomini indietro, provocarono la Controriforma, vale a dire un Cristianesimo cattolico da legittima difesa, con le violenze di uno stato di assedio, e ritardarono di due o tre secoli il pieno risvegliarsi e dominare delle scienze, così come resero forse impossibile per sempre l’armonioso concrescere a unità dello spirito antico e di quello moderno. Il grande compito del Rinascimento non poté essere portato a termine; lo impedì la protesta della germanicità, rimasta frattanto indietro, nel Medioevo aveva almeno avuto il buon senso di attraversare le Alpi per la propria salute». (Il grassetto è mio)
Ma vista dall’angolo visuale peninsulare, a parte subiecti, per Rea, che segue gli studi di Adriano Prosperi, è con la Controriforma che si mettono le fondamenta della “fabbrica dell’obbedienza” di un Paese cattolico in cui, per dirla con parole nostre, tutti i giorni il TG1 si connette con i Palazzi Vaticani anche quando il Pontefici ha solo da dire ovvie verità. Perché in realtà noi non siamo figli dei Comuni o del Rinascimento come non lo siamo dell’Impero romano, allo stesso modo in cui non sono discendenti dei Faraoni gli attuali egiziani o figli di Pericle i vari Tsipras e Varufakis. La storia ha i suoi snodi come le invasioni di altri popoli e i suoi momenti di rottura come le riforme religiose. Sono le religioni che formano le civilizzazioni culturali: e noi siamo figli della controriformata Chiesa Cattolica del Papa Paolo IV Carafa più che di Dante o di Giulio Cesare.
Rea punta la sua vis polemica contro la teocrazia papalina soprattutto nelle vicende che riguardano Giordano Bruno e Caravaggio, due spiriti liberi italiani fortemente contrastati, il primo con la persecuzione sistematica e infine con la soluzione finale del rogo, e il secondo, che aveva osato dipingere la Madonna con le vesti di una prostituta annegata, con una serrata polemica «quasi un tiro al bersaglio, teso a distruggere il Caravaggio non soltanto in tema di ortodossia religiosa, ma anche come pittore».
La connessione tra Controriforma e Fascismo di cui dicevo in esordio è il punto più scoperto (e forse più discutibile) della polemica di Rea. Ovviamente non si tratta del fascismo come dittatura storica e neanche come termine passepartout con il quale si suole indicare tutto ciò che non ci piace, ma come quel tratto antropologico particolare che fu, come diceva Gobetti, la “rivelazione” e non la “rivoluzione” degli italiani, ossia il movimento politico che aveva rivelato gli italiani agli italiani nella loro essenza mettendoli davanti allo specchio. Scrive icasticamente Rea: «Possiamo ben dire che la Chiesa, tra il Cinquecento e il Seicento e anche oltre, farà conoscere con notevole anticipo all’Italia (e non soltanto) il fascismo che si annida tra le pieghe del potere, di qualsiasi potere, e tanto più di quello che non si accontenta di imporre le sue regole con la forza bruta e pretende di impossessarsi della coscienza stessa del cittadino, espugnandone mente e cuore».
Non è estranea a questa equiparazione dei due momenti della nostra storia così distanti nel tempo la lettura della Controriforma fattane da Curzio Malaparte (contenuta nel volume ampiamente discusso da Rea, “L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, La Voce, 1923), quel Malaparte caro a Mussolini che riteneva che il compito del fascismo fosse proprio quello di far rivivere la Controriforma, il rigore che le fu proprio, il suo spirito dogmatico universale «d’impronta meridionale e orientale, che forma l’essenza della civiltà latina», contro la “modernità” che nasce con Lutero e che dilaga nei popoli nordici e che ne conforma mente e comportamenti.
A temi come questo occorrerebbe certamente una riflessione più articolata e approfondita rispetto a questi veloci appunti, i quali lasciano comunque trasparire, credo, l’anima e la verve intellettuale di un uomo come Ermanno Rea. Compito suo sembrò quello che egli annota per l’amato Caravaggio: «afferrare un brandello della realtà, prima che il nulla l’inghiotta».
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