I trent’anni (persi) di Blob
Flaubert raccolse nel corso della redazione del suo terribile romanzo “Bouvard e Pécuchet” una corposa raccolta di sciocchezze scritte nella propria epoca e in quelle passate che gli capitavano tra le mani mentre setacciava una enorme quantità di carta stampata.
Era il suo “sottisier”.
Anni fa un editore italiano ebbe l’idea – che poteva inuzzolire solo gli specialisti del grande Normanno e non certo il lettore comune -, di pubblicarlo per la prima volta al mondo (gli stessi francesi non lo avevano mai fatto) sotto il titolo di “Sciocchezzaio” (Rizzoli, 1992). Era il blob di Flaubert, tutto il materiale intellettuale che fuoriusciva dalla propria epoca e contro la quale egli nutriva una “fièvre rouge” e rivolto alla quale ripeteva, bava alla bocca, “J’écume, j’écume” (schiumo di rabbia).
Flaubert è lo scrittore anti-enciclopedico che ha scoperto, indagato e notomizzato lungo tutto il corso della sua vita intellettuale la stupidità (bêtise) sia sentimentale che intellettuale. Questo e non altro è il suo “proprium” di scrittore e il suo lascito tra i grandi autori dell’umanità. Da attento osservatore delle mucche normanne scorse lo sguardo stupido (bête, “bestia”) delle povere bestie intente a ruminare. Se ne ricordò quando si trovò a dare un nome alla sua eroina bête sentimentale (Bovary) e a uno dei suoi eroi bête intellettuale, Bouvard: entrambi gli eroi avevano radice nella bestia bœuf, il bue.
Come si può intuire sondando la sua pagina egli era contemporaneamente attratto e disgustato dalla stupidità; essa era per lui il sublime visto dal basso, il parrocchetto scambiato per lo Spirito Santo dal “cuore semplice” Félicité. In un passo della sua corrispondenza scrive “ciò che non ha senso è quello che ne ha di più”, perché forse li contiene tutti, ma in negativo. Da qui la sua attrazione per l’horror vacui della bêtise, della stupidità.
Ora, la trasmissione “Blob” che conta quest’anno trent’anni è l’equivalente televisivo del sottisier flaubertiano: un centone di stupidità televisive. L’avrò vista sì e no due o tre volte, pochi minuti e per sbaglio. Non cerco in questo programma la polta televisiva – “stupidamente” raccolta qui secondo i nessi delle tessere di uno scarabeo mentale piuttosto sesquipedale – visto che la evito accuratamente nel corso della giornata televisiva.
L’intenzione “artistica” della trasmissione è un po’ l’estetica “camp” teorizzata dalla Sontag, la raccolta di materiale bassomimetico che diventa “autre” se lo incornici o lo metti tra virgolette.
Ma francamente non vi ho visto mai tutto ciò. Non l’intelligenza scintillante, l’ammiccamento colto e saputo, il gioco mentale delle zone alte dello spirito come vorrebbero i redattori-montatori, piuttosto vi ho scorto – nel montaggio dei pezzi, nei sottotitoli beffardi e spesso oltraggiosi rispetto alle immagini anche dolorose che passano sullo schermo – il persifflage, la raillerie, il se pousser à bout (tutti termini usati da Leopardi nel suo “Discorso” sul cinismo degli italiani, allorché sottolineava la nostra tendenza allo sfottò cattivo e al cazzeggio scorticapelle). Siamo di fronte a uno stupido centone della polta televisiva quotidiana che dovrebbe far scattare nello spettatore il ri-sentimento dell’intelligenza sulla stupidità; il pieno di senso che dovrebbe avere, secondo i curatori, quell’assenza di senso della polta televisiva (della nostra epoca). Ma ciò accade quando il curatore è intelligente come Flaubert. Quando invece il mondo (televisivo) in cui si agitano i Bouvard&Pécuchet è visto con gli occhi bovini e bête di altri Bouvard&Pécuchet televisivi, avviene che la bêtise/ stupidità non è né elisa né elusa né espunta né esorcizzata, ma semplicemente raddoppiata.
Non è merda d’artista, ma semplice merda, al quadrato.
Gioco di polpastrelli sui tasti del telecomando ed estromissione immediata dai confini dell’io.
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