Il cappellaio matto

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23 Marzo 2018

Mio padre non c’era più da un pezzo. Avevo di lui un ricordo vaghissimo.
Purtroppo quell’uomo immenso, sempre vestito di nero, che mi afferrava come un fuscello e mi sorrideva sempre, un giorno si era trovato in banca durante una rapina. Pur essendo nella sua giornata di libertà, non aveva potuto fare a meno di intervenire. Appena estratta la pistola d’ordinanza, era stato colpito da uno dei banditi. Ferito a morte, aveva risposto al fuoco, portandosi con sé nell’aldilà entrambi i rapinatori ( “nessuno aveva una mira precisa come quella di suo marito” aveva sussurrato a mia madre l’ufficiale dei carabinieri che le aveva appuntato sul petto la medaglia d’oro) .

Io avevo tre anni, mia madre trentacinque. Da un giorno all’altro la nostra vita era cambiata. La pensione di mio padre non bastava, così mia madre aveva cominciato, come diceva lei a “fare i servizi”, fino al giorno in cui aveva avuto la fortuna di diventare la governante del Professore.

Mia madre lo ha sempre chiamato così Enrico, il Professore, ed ha continuato a chiamarlo così per sempre, anche quando era evidente che il Professore aveva una storia con sua figlia. Il giorno che era stata assunta era stato un giorno felice per lei. Invece di andare a sbattersi a destra e sinistra, da quel momento mia madre ebbe un unico appartamento da gestire.
E come ne era fiera!
Enrico allora stava a Viale dei Quattro Venti in una casa enorme ereditata da una vecchia zia, traboccante di mobili dell’Ottocento e di libri.
Non ci aveva messo molto a decidere che mia madre era la donna giusta per accudirlo.
“Sembra che tu non esista per lui- mi diceva mia madre- tanto sembra attento e concentrato nelle sue cose. Eppure ti assicuro che non gli sfugge niente. Una volta, quando pensava che non lo stessi guardando ha passato, un dito sul caminetto. Hai capito, Manuè? Stava a controllare se lo avevo spolverato come si deve”.

Insomma, stando ai racconti di mia madre, nei quali si mescolavano il suo reverenziale timore nei confronti del Professore e il suo irreprimibile orgoglio per il ruolo che aveva saputo conquistarsi in quella casa, Enrico, dopo averne sperimentato l’affidabilità come guardarobiera e stiratrice, le aveva proposto di diventare la sua governante.
Ero così cresciuta ascoltando continuamente racconti sulla vita del grand’uomo.
Mia madre non è una donna di cultura e credo che in vita sua non abbia mai letto una riga scritta da Enrico, nemmeno quelle che apparivano sul “Messaggero”, che ospitava una sua sofisticata rubrica di critica televisiva.
I suoi racconti quindi non riguardavano quello che sembrava interessare tutti gli altri, cioè i motivi che lo avevano spinto a passare,negli anni, dalla simpatia per i gruppetti della sinistra extraparlamentare alle più intransigenti posizioni conservatrici . “E’ fisiologico essere rivoluzionari a 20 anni e conservatori a 50” rispondeva perentorio quando si toccava l’argomento (ma era evidente che non era il suo argomento preferito).
No, i racconti di mia madre non toccavano le mirabolanti giravolte del pensiero che il Maestro aveva esibito negli anni, riscuotendo gli applausi dei nuovi ammiratori insieme con i fischi indignati dei vecchi.
I racconti di mia madre descrivevano un uomo diverso da quello pubblico.
“E’ un uomo importante sai! Ma non mi guarda mai come se lui fosse il padrone e io la serva. Mi sembra sempre di essere, chennesò, una vicina capitata lì per caso… Mi guarda con quei suoi occhi di cane buono, strizza leggermente gli occhi e mi dice : “Signora , per cortesia può fare questo può fare quello..”. Mai una volta che mi abbia chiamato Amelia”.
“E sì che non mi dispiacerebbe neanche un poco che lo facesse “ aggiungeva poi certe volte, sospirando.

Mia madre aveva una tale soggezione di Enrico che, pur non potendo fare a meno di lodarne in lungo e in largo la signorilità, in cuor suo si augurava che prima o poi venisse il tempo in cui sarebbe stata trattata con maggiore familiarità e meno cerimonie.
Tempo che non arrivò mai, nemmeno quando non fu più possibile nasconderle la nostra relazione: lui continuò a chiamarla compitamente signora, e rimase per lei il signor Professore (non capiva quelli che gli si rivolgevano chiamandolo Maestro: “Perché si permettono di chiamarlo cosi? Insegna all’università, mica alla scuola elementare! “ diceva indispettita per un atteggiamento che a lei appariva segno di superficialità e noncuranza).
Enrico c’è sempre stato nella mia vita, da quando lui è entrato in quella di mia madre. Ma per molti anni è stato presente solo attraverso quei racconti.
Non pensavo a lui, né facevo alcuna fantasticheria sul suo conto.
Non immaginavo nemmeno che mi sarebbe capitato un giorno di fare la sua conoscenza. Per me era come un pianeta della galassia, sapevo che esisteva, ma non pensavo fosse neanche lontanamente possibile entrare in contatto con lui.
Avevo appena finito le scuole superiori e mi guardavo in giro alla ricerca di un lavoro.
Mia madre, con la pensione di papà e i soldi che le passava Enrico, riusciva a mantenere entrambe dignitosamente, e in più avrebbe voluto che mi iscrivessi all’Università. Ma io, invece, ero ansiosa di dare il mio contributo.

Fu durante quel periodo che mia madre un giorno venne a casa tutta agitata e con gli occhi che le brillavano per l’emozione.
Il professore aveva bisogno di una segretaria che sapesse scrivere a macchina e dattilografare velocemente.
Mia madre lo aveva sentito mentre, al telefono, parlava con un amico di questa sua necessità.
Raccogliendo con un grandissimo sforzo tutto il coraggio che aveva, gli aveva parlato di me, magnificando le mie doti di stenografa e dattilografa perfetta ( non mentiva, avevo predisposizione per queste materie e avevo partecipato anche a qualche concorso di velocità, piazzandomi sempre ai primissimi posti).
Lui l’aveva guardata con i suoi occhi di cane buono, stupito nel sentirle nominare una figlia di cui non aveva mai sospettato l’esistenza, forse contrariato per il timore di un’inutile complicazione, sicuramente timoroso di offenderla con un rifiuto, poi aveva detto: “Perché no?”

La mattina dopo mia madre si alzò all’alba per stirarmi alla perfezione il miglior vestito che avevo.
“Non ci pensare nemmeno lontanamente che mi vesto da damigella d’onore per venire dal “tuo” professore “ dissi seccamente entrando in cucina.
Ci fu una discussione estenuante alla fine della quale lei rinunciò al vestito di gala, io ai blu jeans.
Indossai così un tailleur. Non mi faceva sentire a mio agio come i blu jeans, ma mi faceva sembrare più vecchia.
Avevo vent’anni, ma, vestita in quel modo, potevo passare per una ragazza di 25.
Quando uscimmo di casa ero tranquilla, ma a poco a poco, man mano che l’autobus ci portava verso la casa di Enrico, l’ agitazione di mia madre finì per contagiarmi.
Ero così tesa ed emozionata quando lui ci venne ad aprire.
Era già vestito di tutto punto, con uno di quei gessati di cui mia madre mi parlava in continuazione.
Mi colpirono subito l’asciuttezza del suo fisico e la delicatezza dei suoi lineamenti.
Scendendo dall’autobus mi ero tolta, per un piccolo soprassalto di vanità, gli occhiali da vista che mi servivano per correggere una leggera miopia.
Vedevo quindi, abbastanza bene, i contorni del suo viso e gli occhi chiarissimi e benevolmente ammiccanti, ma mi sfuggivano le piccole rughe intorno agli occhi e alla bocca.
Venuta ad incontrare un uomo maturo, mi trovavo di fronte, con mia sorpresa, e grazie alla momentanea impossibilità di mettere a fuoco i particolari, un uomo dall’apparente età di quarant’anni. Non un coetaneo certo, ma nemmeno il vecchione che avevo immaginato, sapendolo vicino ai cinquanta.

Dopo i primi convenevoli, mia madre sparì, ritirandosi, più per timidezza che per discrezione, nell’ala opposta dell’appartamento.
Enrico mi pilotò nel suo studio dove ci sedemmo l’uno di fronte all’altra separati da una monumentale scrivania ingombra di libri e di scartoffie.
La stanza era letteralmente tappezzata di scaffali e ognuno di esso era stracarico di libri. L’unico spazio libero si trovava alle sue spalle, dove al centro di un panello di legno campeggiava una vecchia litografia che non potei fare a meno di guardare con curiosità.
Intercettando il mio sguardo, lui mi disse: “Ha letto Alice nel Paese delle Meraviglie? Il signore che vede ritratto in quella stampa è il Cappellaio Matto. Quella stampa me l’ha regalata una mia studentessa: diceva che, come il personaggio del libro, ho l’abitudine di fare domande di cui io stesso non conosco la risposta”.
“Perché un corvo somiglia ad uno scrittoio?” risposi, ripescando con la memoria quella vecchia battuta del libro, che avevo adorato, leggendolo e rileggendolo fino a consumarlo nella mia infanzia.
“Lei è strepitosa quando sorride” rispose lui.
Non bella, né incantevole, né graziosa, usò proprio questo termine, strepitosa.
Era il primo attacco, allora non potevo nemmeno immaginarlo, il suo primo tentativo di accorciare le distanze gettando tra noi a mo’ di ponte un aggettivo molto lontano dalle sue abitudini espressive e che immaginava vicino alle mie.

TAG: Alice nel paese delle meraviglie, Lewis Carroll
CAT: Letteratura

Un commento

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  1. luciana-maci 6 anni fa

    Seconda puntata? :)

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