Vita presente in un corpo assente: Franco Cordelli

30 Gennaio 2016

Coprire le statue presenti nei Musei Capitolini in occasione della visita in Italia del presidente iraniano Hassan Rouhani è stato certamente un gesto insensato e privo anche di intelligenza, ma ha denotato la tipicità di una cultura relazionale dell’assenza. Non una forma quindi di iconoclastia e ancora meno un suo avvallo inginocchiato, ma un inscatolamento quale messa in mostra di un corpo ineludibile nella sua forma proprio in quanto assente, finalmente oscurato.

La forma diviene il gesto, la presenza inquieta e inquietante di scatole di formica che mimano un fondale inesistente. Una sparizione che impone la propria presenza e che in realtà arriva a delegittimare ogni distruzione possibile, ogni cancellazione immaginabile di quei corpi occultati.

Un intervento che ha la sua prima sponda ideale in quella che il filosofo francese Grégoire Chamayou ha definito teoria del drone (Teoria del drone. Principi filosofici dell’uccidere, Derive Approdi, 204), ossia la caccia all’uomo senza inseguirlo, la guerra senza un campo di battaglia. La tecnologia militare degli ultimi quindici anni ha mutato radicalmente le dinamiche di guerra trasformando le condizioni ambientali in una sorta di fondale, e i nemici o meglio ancora il corpo del nemico in una banale pedina da inseguire tramite joystick e ridurre infine a valore zero schiacciando semplicemente un pulsante, il tutto comodamente da casa.

Uccidere un uomo è omicidio, ucciderne mille è un gesto eroico si diceva un tempo, oggi invece la guerra ribalta il detto eliminando la specificità dell’individuo, ma contemporaneamente rendendo violabile lo stesso in un combattimento così mirato e preciso che l’eliminazione del nemico ha sempre più le caratteristiche assassine di un’azione da sicario. La relazione è ormai uno a uno, ma senza la presenza del corpo assassino. Quindi una relazione che vede la sua completezza nell’assenza di chi ingaggia e nell’eliminazione di chi tramutandosi in vittima assume il proprio ruolo in gioco e scompare perdendo per sempre ogni forma possibile di presenza.

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Occultare le statue diviene così il mezzo più ovvio per costruire una relazione in cui l’occidente dichiara evidentemente la propria ipocrisia. Ipocrisia che contestualmente si tramuta in forma culturale, a sua volta mascherata da una costruzione tecnologica che più che idearla l’ha banalmente favorita e agevolata seguendo quelli che erano gli stimoli o meglio i pruriti di una società, che invecchiata e impacciata risulta inadeguata alla contemporaneità e in evidente stato di vergogna per il proprio corpo decadente.

Le guerre si fanno occultando cadaveri, il cinema mostra corpi mascherati e ne pretende di rifatti, la diplomazia infine cancella con degli scatoloni una storia ed un patrimonio vistoso quanto insostenibile proprio per una visione politica ossessionata dal futuro e continuamente mortificata dal passato.

Non è un caso quindi che le relazioni quotidiane si svolgano prevalentemente, anche le più intense, nella continua e ostentata assenza dei corpi ossia sui social network. Paradigma dell’esistenza contemporanea i social network non rappresentano altro che il mezzo migliore per liberare in una totale condizione di controllo l’ansia dello scambio relazionale che si rifugia così in un’ottica pubblica, in un vero e proprio palcoscenico. Ciò avviene non tanto e non solo per un impulso egotico, ma proprio per rifugiarsi sotto l’ombra di una maschera. Senza corpo ogni cosa è possibile, tanto più oggi in cui gli anni scorrono più veloci che mai e ci si sente sempre più eredi stanchi di un patrimonio inutile che non detentori di una ricchezza avuta temporaneamente in prestito dai futuri nipoti.

La forma scritta – quando ha al centro il linguaggio, la parola e non un vacuo e vanitoso storytelling – ha la qualità unica di restituire il corpo delle cose, il suo peso e il suo impalpabile movimento. Due libri e tre autori hanno negli ultimi mesi, da strade straordinariamente opposte, saputo proporre con forza il senso della relazione, dello scambio in presenza di un corpo. Giuseppe Genna e Andrea Gentile con Etere Divino (Il Saggiatore, 2015) hanno dato forma a ciò che forma non può avere, hanno raccontato così ciò che è impossibile raccontare e lo hanno fatto con la facilità di una parola scritta che ha la tensione e l’onesta ambizione di raccogliere e mostrare, dare luce e rivelare forme. L’ostinazione di Genna e Gentile vive totalmente all’interno di un libro vulcanico e multiforme che dichiara l’essenzialità di un corpo per stare nelle cose, per vivere, amare e sentire, anche quando un corpo è impossibile averlo perché la velocità insegue il senso e la confusione sposta ogni volta l’obiettivo. Etere Divino è la guida per un tempo informe, ma della cui esistenza non si può certamente dubitare. Dunque il senso è nella sua perenne attualità che sfuoca nella fotografia del momento, ma restituisce una presenza priva di nostalgia o di malinconico abbandono decadente e kitsch.

Con un testo friabile e a tratti sconvolgente Franco Cordelli invece si muove proprio dai confini della nostalgia per compiere una rincorsa che dal passato tenta di afferrare il presente. Una sostanza sottile (Einaudi, 2016) mette in scena un romanzo quasi cechoviano in cui gli elementi sono quelli di un disastro disincantato. Un padre e una figlia danno vita ad un incontro all’interno di quell’assenza affilata e spesso soffocante che è il tempo presente, un dialogo serrato tra memoria e saggismo che che coglie nel segno, pur alle volte avvitandosi in una sorta di onore di patria culturale un poco rindondante.

Un inseguimento continuo fra inciampi e cambi di direzione che rende al meglio il dolore di una comunicazione che deve forzare e scassinare le serrature dentro cui si sono rinchiuse le generazioni, un non dialogo doloroso e angosciante nel proprio muto comprimersi.

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“Il cuore del mondo era lì sotto, dentro il suo corpo; e un uomo, un essere umano di sesso maschile lo stava esplorando. Il pollice, o il dito qualunque esso fosse, girava e scivolava – tastava, valutava. Qui non c’è niente, sentì dire.” La presenza del corpo diviene così la ricerca di un piacere che ha il proprio godimento nella percezione di un’assenza incolmabile e infinita, di un vuoto che sia buono, scrive ancora con commovente precisione Franco Cordelli. Il racconto è del padre, l’ascolto della figlia. Il padre non ha nome, ma un ruolo. La figlia è invece Irene, un corpo in ascolto. Il padre è un uomo perso nel garbuglio di pensieri misti a parole dette, Irene il filo in grado di ricostruire il significato di un’assenza pur con l’implicito ricatto di divenirne complice.

La relazione è un dialogo in stato di grazia in cui la confusione regna sovrana proprio perché da quella presenza ostile e crassa è possibile sciogliere il senso di ogni cosa, una cosa per volta. Una sostanza sottile è un romanzo sul bisogno del corpo e sull’obbligatoria necessità della sua stessa assenza. Cordelli sfugge ostinato alla logica seppure presente dell’abbandono e della fuga per ricercare quel piacere estremo che solo alla fine genera un’impagabile assenza, il colpo al cuore del vuoto improvviso che viene un attimo prima, quando tutto è ancora in vita.

Una relazione sincera che si pone oltre la paura contemporanea che ossessionata da continue e speciose giustificazioni maschera l’assenza esponendola come in un rito tribale postmoderno. Il corpo invece esiste e solo la sua presenza permette di sfuocarlo. Con il corpo si fanno i conti, così come con la felicità che da troppo tempo non a caso pare aver abdicato in questo emisfero di mondo a favore della paura quale unico reale sentimento del presente.

TAG: andrea gentile, Franco Cordelli, Giuseppe Genna, Grégoire Chamayou
CAT: Letteratura, Qualità della vita

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