10 Album da ascoltare che raccontano il 2015

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12 Dicembre 2015

Raccontare un intero anno scegliendo 10 album che lo rappresentino diventa sempre più complesso, considerando che bisognerebbe tener conto di gusti personali, presa oggettiva, innovazione, originalità del sound, nonché del movimento degli astri volendo, non è proprio una di quelle scelte da fare a cuor leggero, e sarà sempre vivo il dramma dell’escluso, con conseguenti polemiche del genere: quali sono le ragioni che ti portano a escludere X piuttosto che Y (con tutto il rispetto per le arti creative che non si mischiano alle incognite matematiche), si tratta solo di ignobili antipatie personali, oppure è una questione di semplici preferenze, o ancora c’è una certa logica dietro la scelta delle classifiche musicali? Per quanto si voglia star qui a girarci intorno è tutto solo un gioco, dettato da ritmi un po’ casuali e un po’ opinabili. Qui si prova a tirar fuori da un anno intero 10 album che possano rappresentare il ritmo delle uscite, con l’inevitabile miliardo di lacune e mancanze a corredo.

Io comunque voglio cominciare da Father John Misty

Joshua Tillman non è il classico cantautore barba e chitarra, con I Love You Honeybear entriamo dentro un disco che scava l’America con ironia e profondità, ballate intense, e un pizzico d’elettronica che spiazza (True Affection), il tutto raccontato con un sopraffino songwriting. Album dedicato alla moglie Emma Tillman, Father John Misty non si risparmia quel pizzico di satira e auto-ironia che tanto ci piace per non cadere nell’auto-compiacenza. Disco da ascoltare, e riascoltare tutto l’anno: ma vi capiterà anche in futuro di metterlo su.

La consacrazione di Kurt Vile

Per chi ha amato Smoke Ring for My Halo e Wakin on a Pretty Daze questo nuovo album di Vile dal titolo sospensivo, B’lieve I’m Goin Down…, è quello dove il suono trova la sua piena consacrazione. Lo scorso anno l’ex gruppo di Vile, i War On Drugs, erano saliti molto su in tutte queste classifiche di fine anno con Lost in the Dream, si parlava di una marcia in più e di uno spessore del suono. Con questa nuova uscita Vile sembra aver trovato la sua marcia, approfondito le atmosfere magiche dei due album precedenti, e virato verso lo spessore di pezzi come Wheelhouse e Pretty Pimpin. Basti dire che nello stesso periodo usciva il disco nuovo dei Deerhunter e ne veniva oscurato.

L’arpa di Joanna Newsom

Con la Newsom tutti abbiamo o potremmo avere un grave problema: o ti piace immediatamente in modo istintivo e feroce, oppure potresti detestarne il tono di voce e quello strumento così fuori dalle corde della nostra epoca contaminata dal rock, l’arpa. Eppure capisci che questo disco è uno di quelli che vanno nella direzione di ricerca di sound originali che fanno bene alla musica. Divers è la solita ventata di classe di Joanna, sarà difficile tenerlo fuori dai giochi.

Fin dove riesce a entrarti Sufjan Stevens

Quando è uscito il nuovo disco di Sufjan Stevens a inizio anno, Carrie & Lowell, non si è potuti restare insensibili: ogni pezzo fendeva come un coltello. Non bastassero le musiche, ci si mettono anche i testi di Sufjan, che riescono a scavare nella memoria del tempo e arrivare a raccontare una storia personale facendola universale (c’è la madre di Sufjan nell’album, e tutti i suoi sentimenti). Sufjan Stevens è il solito talento, la profondità con cui tocca certe corde è difficile da raggiungere: lui ci riesce, e tanto basta.

Il rumoroso esordio dei Viet Cong

Poverini i Viet Cong, costretti a meditare l’idea di cambiar nome alla band perché qualche tempo fa la comunità vietnamita americana si era ritenuta offesa dal loro nome. In attesa di sapere cosa accadrà, il loro esordio in LP (qualche Ep era già uscito) quest’anno è straordinario e violento, e irrompe in un panorama che di questi suoni post punk e forti avrebbe più bisogno che mai, in un’epoca che si è votata all’elettronica e al cantautorato. Dove sono le band?, ci sussurriamo nel 2015. E’ vero che restano i freschi Tame Impala a regalarci un po’ di frivolezza, gli immensi Deerhunter, che stavolta non hanno fatto uscire l’album della vita ma è pur sempre un disco dei Deerhunter, e quei Beach House prolifici dal doppio disco (così vario da passare da riadattamenti di cavalcate della valchiria alle loro più classiche atmosfere), però la vera band innovativa (non me ne voglia nessuno) quest’anno sono i Viet Cong. Se non altro perché il post punk sembra già una moda passata dopo anni di overdose, e di certi sound ne abbiamo innato bisogno.


Il jazz targato Kamasi Washington

Per gli amanti del jazz il disco di Kamasi Washington, The Epic, è una manna dal cielo. Si percepiscono davvero i vecchi battiti di batteria jazz, e un sassofono che fa sognare e sembra evocare una voce. Nell’anno del cinquantesimo anniversario d’uscita di A Love Supreme di John Coltrane, ritrovare un legame con quella vecchia musica che oggi sembra riservata ai festival di jazz a tema come fossero piccole riserve, è un bel colpo al cuore. Disco lunghissimo (più di tre ore di musica), va affrontato a sera, dopo i pasti.

L’attitudine di Courtney Barnett

Ho ascoltato per un po’ sia il nuovo album della Barnett che quello di Jenny Hval, due cantautrici che sono riuscite a lasciare un’impronta sull’anno che volge al termine, e ho deciso per ragioni puramente sentimentali che Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit possiede una forza maggiore e un suo registro della meraviglia rispetto ad Apocalypse, Girl. Courtney Barnett è più graffiante, e ci ricorda quell’attitudine da prima Cat Power, la donna con la chitarra, la compositrice solitaria con la voce fendente. Come fare a non cascarci.

Sentirsi a casa con Indian Wells

L’elettronica quest’anno ha buttato fuori le sue solite produzioni, anche se si è sentita (personalmente) la mancanza di un disco da capogiro, di certi suoni penetranti e da pelle d’oca. C’è stato Jamie XX che ha cacciato fuori qualche singolo che ha letteralmente spaccato l’aria turpe e risollevato l’animo, e Floating Points è arrivato in autunno a riaprire la questione con un apprezzatissimo Elaenia, ma io resto legata a questa produzione del made in Italy che tanto mi ha conquistato la primavera scorsa. Non sempre bisogna andare dall’altro lato del mondo per ritrovare i suoni che hai sotto casa, e Indian Well con Pause ci ha fatto sentire a casa.

Iosonouncane e il cantautorato italiano da combattimento

Il cantautorato italiano quest’anno ha fatto il suo bel corso tanto che si potrebbe parlare di nuova esplosione, ma in un panorama in cui si ripropone troppo spesso il ritrito schema chitarra e voce, con testi da combattimento che prendono a man forte sempre dal primo Bianconi adattandoli a un’epoca che fa della satira post-moderna il suo controcanto, Iosonouncane ha avuto il merito di osare con Die. Non sarebbe uno dei miei dischi preferiti quest’anno, ma per raccontare il 2015 non può mancare l’Italia che si narra in musica, e questo mi sembra il disco più originale del lotto.

Anche gli Sleaford Mods sanno rappare 

Per essere completamente onesti in questo 2015 bisognerebbe tener presente anche la fertilità infinita dell’hip hop, questo è anche l’anno in cui chiunque si è innamorato di Kendrick Lamar (che comparirà in tutte le classifiche dei migliori dischi 2015 ai primissimi posti, e inevitabilmente va almeno nominato). Io ho delle insane difficoltà con il genere, e gli Sleaford Mods sono la mia mediazione preferita con il mondo hip hop, il compromesso che qualcuno di noi stava aspettando. Graffianti e post-punk, la voce di Jason Williamson riesce a rappare su pezzi che raccontano il doloroso estremismo tutto inglese di un duo originalissimo. Acclamati solo nell’ultimo periodo, gli Sleaford Mods con Key Markets confermano il loro approccio punk: punk in fondo vuol dire anche rottura.

TAG: courtney barnett, father john misty, indian wells, iosonouncane, joanna newsom, kurt vile, sleaford mods, sufjan stevens, viet cong
CAT: Musica

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