In ‘Tredici canzoni urgenti’ Vinicio Capossela racconta il nostro presente
Ho provato a immaginarmelo Vinicio Capossela nell’atto della composizione delle sue tredici canzoni urgenti. Alla fine la maggior parte delle canzoni in circolazione è sempre dedicata a un sentimento nobile e convulso, all’amore celebrato in tutte le sue forme. Quelle di questo disco sono altre canzoni d’amore, un amore raccontato al contrario però, come si guarda un paesaggio dal negativo della sua foto, ammesso che ci sia ancora qualcuno che ricorda cos’erano i negativi delle foto. Un amore nato dall’emergenza di raccontare tutto ciò che amore non è: la violenza di genere, la cattiva educazione alle emozioni, l’abbandono scolastico, la delega da parte degli adulti all’intrattenimento digitale in cui versa l’infanzia, la cultura usata come mezzo di separazione sociale, il carcere inteso come reclusione senza rieducazione, il parossismo consumistico generato dal capitalismo predatorio. E’ dal contrasto quotidiano, da questa grande violenza routinaria esercitata in tutte le sue forme che nascono queste tredici canzoni.
Un disco musicalmente polimorfo. Ci sono molti strumenti musicali, tantissimi musicisti e molto ospiti. E un florilegio di forme a dimostrare che la musica leggera, quando è fatta bene può essere anche musica colta. L’alternarsi di tutte queste cose ha un solo obiettivo: dare forma all’urgenza di interpretare e dare voce ai problemi più stringenti del momento storico che stiamo vivendo, a un campionario di mali che abbiamo quotidianamente davanti ai nostri occhi ma che non riusciamo più a vedere, a sentire, a capire. E si fa prestissimo a lasciarci passare sopra tutto questo. Le tredici canzoni urgenti sono state scritte fra febbraio e giugno del 2022 e registrate nei mesi seguenti. Sono la fotografia di un momento storico molto particolare, perché nel febbraio 2022 è cominciata una guerra che ci stiamo portando dietro senza sapere ancora per quanto continuerà. E il mondo in cui viviamo, in tutte le sue manifestazioni, è ormai supino, completamento piegato sul divano di fronte alla continua spettacolarizzazione della realtà.
Nasce da questa lunga prostrazione l’urgenza di testimoniare, di affrontare, di ricordare e urlare che riempie le canzoni di questo disco. Si parla di urgenza etica, urgenza educativa, urgenza esistenziale, urgenza di un nuovo umanesimo egualitario, urgenza di verità oltre le mistificazioni correnti. In questo racconto delle urgenze, in questa lotta per le urgenze del tempo presente, Vinicio è accompagnato anche da tanti ospiti ideali, a cominciare da Bertold Brecht, citato anche nel brano ‘La parte del torto’, quella che lo scrittore e drammaturgo tedesco affermava essere “di chi doveva lottare per la giustizia e la libertà sovvertendo il sistema borghese”, in contrapposizione ai “posti buoni occupati dai ricchi che detengono capitale e potere”. L’ambientazione del brano è volutamente western, per dare forma a un duello in cui sembra prevalere sempre e solo la parte peggiore del tutto.
L’altro ospite ideale del disco è Ludovico Ariosto, evocato in due brani. ‘Ariosto Governatore’ è una ballata ispirata alle lettere scritte durante l’esercizio del suo ruolo di governatore in Garfagnana, lettere che esprimono la frustrazione di non potere incidere su una realtà in cui il potente è sempre intoccabile e l’umile è oggetto di ogni vessazione. Il secondo brano ariostesco è invece ‘Gloria all’Archibugio’, una marcia dal sapor rinascimentale che rievoca l’Orlando Furioso e le guerre d’Italia, laddove Ariosto individua l’inizio di nuove e più terribili forme di devastazione nella rivoluzione operata dalle armi da fuoco, che secoli più tardi, e qui c’è l’urgenza del nostro tempo presente, porterà agli ordigni di distruzione di massa.
La luce, una delle poche luci in fondo al quadro delle urgenze, emerge, come sempre, dal ricordo. E’ in forma di filastrocca ed è l’unica vera guerra che bisogna combattere. E’ il brano ‘Staffette in bicicletta’, celebra il lato più umano della Resistenza, la sua componente femminile fatta di quelle donne che tenevano in vita la linea del fronte fornendo cibo, vestiti, assistenza logistica ma soprattutto calore umano “quel loro farsi madri, figlie, sorelle e compagne dell’umanità ci sia d’esempio e ci sorregga ora che sentiamo il mostro risorgere sotto i nostri piedi”. La resistenza torna anche nell’incipit del brano ‘La cattiva educazione’, canzone che ci riporta a un’altra guerra di sopraffazione, compiuta spesso fra le mura domestiche e generata da una cultura tossica, patriarcale, misogina che ha trasformato l’Amore in uso e abuso della sessualità, del corpo, della violenza e del possesso.
Tutto il disco è un grido levato contro le semplificazioni. Perché la forma è anche sostanza e dovremmo fare sempre attenzione alle espressioni che utilizziamo. Ci sono formule che tradiscono immediatamente le intenzioni che abbiamo. Formule bulimiche, fagocitanti tutto il resto, all you can eat, evviva il consumo, la quantità che vince sulla qualità. E in questa furia di fare incetta di tutto si perde la capacità di essere se stessi e di avere un’opinione, un’intelligenza propria, diversa da quella di tutti gli altri, l’essere se stessi. E come finirà tutto questo? Finirà con tutti noi seduti ‘Sul divano occidentale’, illusi di essere parte della storia, emotivamente coinvolti dalle pressioni create dal sistema dell’informazione, bombardati di “emergenze” fino a cadere esanimi aspettando la consegna del cibo ordinato a domicilio, all you can eat.
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