Vent’anni senza Lucio Battisti

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9 Settembre 2018

Alla fine degli anni ottanta, non ancora maggiorenne, avevo scoperto un modo non troppo originale, ma efficace, per fare viaggi con pochi soldi in estate. Il prete del paese in cui vivevo organizzava ogni Agosto una gita in qualche città europea. Erano gite frequentate prevalentemente da anziani; ma Don Piero, questo il nome del sacerdote, aveva piacere che partecipassero anche dei giovani. Per cui aveva stabilito che i ragazzi pagassero meno della metà della tariffa intera (che, intendiamoci, era già bassa di suo). E in uno dei primi giorni di agosto, io ed altri ragazzi salivamo su un grande pullman da turismo diretto a Amsterdam, o a Colonia, o a Monaco di Baviera. Durava una settimana, a volte dieci giorni.

Noi ragazzi facevamo gruppetto nei sedili in fondo. Ci divertivamo, come si divertono i ragazzi ad ogni latitudine, e naturalmente nascevano nuovi amori, gelosie, storie. Il momento più interessante era di solito il rientro serale da qualche ristorante adibito a mensa per comitive, localizzato nei sobborghi della città che visitavamo. Era il momento in cui nel pullman si abbassavano le luci e noi là dietro, beh, scoprivamo come era dolce l’oscurità. Don Piero lasciava fare, da uomo di Chiesa mite, intelligente e comprensivo. Non sono credente, ma gli ho voluto e gli voglio ancora molto bene.

L’autista era ovviamente una figura molto importante nella comitiva. Utilizzando sempre la stessa compagnia di trasporti, ormai ne conoscevamo diversi; ma uno di questi era speciale. Romano, ne parlerò ancora, era un omone grande e grosso che rivendicava un’improbabile intensa storia d’amore con una giovane Fiorella Mannoia. Aveva molta benevolenza per noi ragazzi, e naturalmente era complice nelle nostre serate in fondo al pullman. Una sera, appena partiti da un ristorante in Svizzera (mi pare), andai da Romano e chiesi di mettere un po’ di musica, “perchè mi serviva”. Romano mi guardò ammiccante e poi disse: “ho una cassettina…ultraromantica, ora sentirai”. Non c’erano ancora i CD, e la musica nell’autoradio si sentiva con le musicassette. Da una tasca del cruscotto Romano tirò fuori una musicassetta rossa, e la inserì. Una musica bellissima inondò il pullman nel buio generale, dove le luci più forti erano venivano dai lampioni della strada. Erano versioni strumentali delle canzoni più famose di Lucio Battisti. Nei sedili in fondo fu un successone, ma anche gli anziani nelle prime file erano contenti. Un rientro in albergo magistrale. Romano, all’arrivo, sogghignò soddisfatto.

 

Oggi sono venti anni che è morto Lucio Battisti. Quella sera del 9 Settembre 1998 ero a cena in una pizzeria di Pisa. Una bella serata, ma la notizia mi colpì. Ricordo benissimo la tavola, le persone, i nostri discorsi, le immagini dello speciale televisivo, anche se la televisione era lontana. Cercavo di capire come fosse morto, nel suo esilio di Londra. Da decenni Battisti parlava solo con la musica; le poche notizie personali si ottenevano di quarta mano.

Ho ricordato questi due episodi (e altri ce ne sarebbero) perché significano, almeno per me, qualcosa. Lucio Battisti appartiene a quella ristrettissima cerchia di uomini che ha ottenuto l’immortalità nella maniera più bella che sia possibile per un uomo: creando cose, in questo caso musica, che si attaccano come una colla alle piccole vicende felici e meno felici della vita di tutti, e le rendono inalterabili alla lenta decadenza della memoria.

Qualsiasi delle canzoni più note, e meno note, di Battisti riporta alla luce in alcuni di noi episodi con un dettaglio che pochi altri ricordi hanno. E tutti noi le abbiamo ascoltate, sentite; qualcuno le ha anche suonate. Una reale memoria collettiva in cui ognuno conserva gelosamente i suoi ricordi, ma che in un certo senso condivide con tutti gli altri. Battisti ci ha reso possibile la cristallizzazione della felicità, della giovinezza, dell’innamoramento, della perdita, financo dell’imbarazzo, sicuramente della nostra inconfessabile debolezza.

Battisti è stato un reale genio della canzone. Il quindicennio con Mogol, in cui parole e musica si sono fuse in maniera irripetibile, è un monumento musicale che non è arrischiato paragonare all’opera dei grandi compositori classici. L’incontro con Panella e i suoi testi enigmatici, resi con una struttura musicale futurista, è stata una discontinuità di cui non si ha praticamente traccia nella storia musicale.

Battisti, artista, è fuggito da chi lo ascoltava, ed ha lasciato che a parlare fosse solo l’arte. La fuga di Battisti ha permesso, tra l’altro, che là dietro, nel pullman, la musica della “cassettina” di Romano lasciasse solo la colla indistruttibile di sé, la lasciasse colare sui nostri primi tentativi di tenersi stretti, senza che altre presenze, l’immagine del cantante, lo show dei concerti, il messaggio politico, potesse minimamente disturbare quegli attimi, nel buio e tra i sedili.

C’è una canzone di Battisti che amo particolarmente. Non è tra le più note, si chiama Vento nel Vento, e racconta di un uomo che un giorno ha trovato l’Altra, e si chiede: perché? E’ qualcosa che è probabilmente successo a tutti, ma la canzone lo richiama alla memoria e rende indelebile l’attimo per ciascuno.

“Mi sono svegliato solo, poi ho incontrato te. E l’esistenza un volo diventò per me”.

Le parole, senza la musica, non rendono. E non ci sono parole per ringraziarti, Lucio.

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CAT: Musica

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