Come il canto ci obbliga a voltarci indietro – I nipotini d’Orfeo

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17 Marzo 2019

Riflessione artistica, a volte semiseria, di un nipotino d’Orfeo

 

Mi presento subito. Io sono un nipotino di Orfeo. E sono, ça va sans dire, ma lo diciamo lo stesso, un cantante. Sulle origini di Orfeo esistono molti contributi fondamentali che hanno rivoltato il mito in lungo e in largo, traendo insegnamenti e avvertimenti, restando ammaliati dal suo canto, e così via. Cercherò, se possibile, di aggiungere qualcosa, magari con un tono un po’ più giocondo rispetto a studi seriosi e accademici, ma senza perdere l’essenza della storia che il mito ci racconta. Di tanto in tanto, però, un riferimento al tempo perduto e al mondo classico ci vuole pure, perché in quel mondo, da qualche parte, abita la Urpflanze, la pianta primigenia che Goethe bramava di trovare in Sicilia e che, simbolicamente, potrebbe rappresentare l’inizio di tutte le cose che ritroviamo nella nostra vita quotidiana.

Iniziamo dunque coll’occuparci di Orfeo e, di conseguenza, del canto, mentre l’eco della sua voce rimbalza attraverso i millenni e i secoli e li scavalca, tornando in auge di tanto in tanto e, alla fine, mostrandoci una via. Ci si equipaggi per bene e ci si metta in marcia a cercare la propria Euridice, perché di sicuro, per ognuno di noi, ce n’è una che aspetta, assai irritata per la lunga attesa. Ha un caratterino, l’Euridice… Io la mia l’ho trovata, persa, ritrovata, ripersa, le ho dato una terza possibilità e poi mi sono rassegnato a lasciarla andare per i fatti suoi perché era diventata troppo esigente e io sono uno spirito libero. Forse l’Inferno era il posto suo, alla fine.

 

La voce umana, la voce artistica in forma monodica, si cominciò a riscoprire nel Rinascimento fiorentino dove, nei versi di poeti assai raffinati come Agnolo Poliziano (1454-1494) e, un secolo dopo, Ottavio Rinuccini (1562-1621), il mito del cantore Orfeo fu riesumato e non senza una ragione. Pur se sporadicamente citato da Francesco Petrarca nei Trionfi, da Dante Alighieri nel Convivio e da Giovanni Boccaccio nel Decameron, non c’era stata ancora una ripresa così totale del mito da Ovidio in poi. Peraltro Poliziano segue proprio il mito secondo Ovidio, dove avviene una svolta omoerotica di Orfeo, una volta definitivamente perduta e senza ritorno, Euridice. Naturalmente la versione fu censurata, in seguito, perché piuttosto scabrosetta:

 

ORFEO

Qual sarà mai sì miserabil canto
Che pareggi il dolor del mie gran danno?
O come potrò mai lacrimar tanto
Ch’i’ sempre pianga el mio mortale affanno?
Starommi mesto e sconsolato in pianto
Per fin ch’e cieli in vita mi terranno:
e poi che si crudele è mia fortuna,
già mai non voglio amar più donna alcuna.

Da qui innanzi vo’ cor e fior novelli,
la primavera del sesso migliore,
quando son tutti leggiadretti e snelli:
quest’è più dolce e più soave amore.
Non sie chi mai di donna mi favelli,
po’ che mort’è colei ch’ebbe il mio core;
chi vuol commerzio aver co’ mie sermoni
di feminile amor non mi ragioni.

 

Un inno alla pederastia, com’è noto una forma d’amore accettata presso Greci e Romani e, forse, agognata da molti umanisti, per quanto fosse considerata peccato mortale per la cristianità. E, infatti, poco dopo codesta dichiarazione, dove il cantore supporta per altre due ottave di endecasillabi la svolta omosessuale, trovando un appiglio negli esempi celebri di Giove e Ganimede, Apollo e Giacinto, Ercole e Ila, peraltro senza che il povero Orfeo abbia avuto il tempo di metterla in atto, intervengono le Baccanti, furibonde per sentire così disprezzato il sesso femminino, facendo scempio del cantore e sacrificandone il corpo a Bacco. Processo alle intenzioni. Euoè!

 

Ça va sans dire, ma noi lo diciamo, colla censura della dichiarazione di Orfeo post Euridice, non aveva più senso l’intervento cruento delle Baccanti, e non proclamo che fu sempre adottato un lieto fine ma, nelle riprese moderne, la favola fu modificata di parecchio. Una moresca o delle danze erano il modo migliore per tornare a casa tranquilli senza choc di fini infauste, dopo l’opera. A volte Euridice viene ricuperata una seconda volta, magari da un deus ex machina, come nel caso dell’opera di Christoph Willibald Gluck (1714-1787): e tutti vissero felici e contenti. Non ci dice, Ranieri de’ Calzabigi, librettista di Gluck, se poi la coppia felice mise al mondo tanti bambini, magari tutti con voci strepitose. Mancò un sequel, nell’opera non si usava. Ci furono perfino clamorose e sferzanti parodie operistiche del mito. La più celebre di tutte fu quella di Jacques Offenbach, che con Orphée aux Enfers, 1858, prendeva in giro sia il mito stesso, con espliciti riferimenti alla società imperiale parigina dell’epoca, sia l’opera di Gluck, considerato intoccabile nella tradizione musicale francese dell’Ottocento. Per non parlare del surreale Orfeo vedovo, 1950, di Alberto Savinio. Ma questo sarebbe dovuto ancora avvenire, molto tempo dopo il Rinascimento.

 

L’unione della poesia e del canto che, appunto, contraddistingue Orfeo, è un volgersi indietro al passato remoto, perché i moderni erano convinti che i versi delle tragedie greche e della poesia lirica fossero tutti canti, suoni, lamenti e nenie. Riscoprendo il mondo antico, insieme all’uomo e la sua fisicità, la sua presenza nel mondo, le sue pulsioni, in primis quella erotica (come fece Poliziano), era inevitabile che si rivolgessero al modello greco, dove l’uomo era al centro della poesia – teatrale, tragica e comica ma non solo – colle sue passioni, i suoi eroismi, i suoi errori, i suoi destini e i suoi rapporti colla divinità e col fato. E l’uomo, in quelle tragedie, si esprimeva attraverso la voce e, in alcune parti, appunto, il canto. Certo nessuno sapeva come si cantasse nella Grecia antica, e le discussioni animate nella fiorentina Accademia degli Alterati, sul finire del Cinquecento, si svolgevano proprio su come ricostruire codeste tragedie, studiando le antiche forme di sapienza, la pitagorica innanzitutto, interrogandosi anche su come si potessero svolgere le rappresentazioni a teatro. Ci torneremo.

Ottavio Rinuccini, presente in quell’Accademia, incominciò a comporre quelli che diventarono i primi libretti d’opera della Storia, in uno stile tassiano petrarchesco, con versi assai eleganti e musicali. Le lingue parlate all’epoca nella penisola italiana e, soprattutto, il toscano, direttamente evolutesi dal latino, avevano la caratteristica di possedere più di altri idiomi, anche neolatini, una musicalità interna, delle intonazioni ben decise e armoniose, una notevole drammaticità. Giusto per fare un esempio, basti pensare che Adrian Willaert (1490-1562), Orlando di Lasso (1532-1594), e una serie di altri compositori dell’Europa settentrionale, in pieno Rinascimento, venivano a risciacquare i loro panni musicali in Italia, spesso nel Golfo di Napoli, dove l’idioma era assai melodioso e adatto a villanelle, madrigali buffi, parodie, inaugurando la tradizione secolare della canzone napoletana. Applicare il canto e l’accompagnamento strumentale ai versi di Rinuccini venne quasi naturale da parte dei cantori-compositori come Jacopo Peri (1561-1633) e Giulio Caccini (1550-1618).

 

Il primo melodramma in assoluto fu La Dafne di Jacopo Peri, nel 1597, del quale quasi tutta la musica è perduta, seguito poco dopo da L’Euridice, che apre il 1600, collaborazione di Peri e Caccini. Quest’invenzione si chiamò “recitar cantando” e tanti interrogativi pose in seguito nella ricostruzione dell’emissione vocale vera e propria. Certo, i versi di Rinuccini, pur eleganti, non avevano la penetrazione di quelli d’un Torquato Tasso (1544-1595), dall’immensa ispirazione poetica che ne caratterizzò l’opera. Era più un poeta cortigiano, forse più attento a una perfezione formale che però faceva buon gioco a un genere misto nascente, soprattutto se composto per una corte e quindi per occasioni gioconde come feste e nozze, d’onde il lieto fine.

 

Henri Regnault – Orphée aux Enfers , 1865

 

Il potere evocativo della voce umana, nella versione monodica, con indefinibili e innumerevoli sfumature timbriche, interpretative, musicali, in uno spettacolo nuovo come il melodramma, sconvolse il mondo intorno, che non aveva mai ascoltato un simile esperimento. L’uso della lingua toscana, la più musicale in assoluto, si rivelò vincente anche per il futuro perché l’opera italiana è ancora oggi la più rappresentata nel mondo e la magia creata dalla voce si ripropone ad ogni rappresentazione.

Orfeo, di certo, colla sua voce spostava le rocce, faceva diventare mansuete le belve, faceva cessare le procelle, commoveva le divinità, faceva tacere perfino le sfacciate sirene, anch’esse esperte nell’arte canora e celebri nell’ammaliare i naviganti per poi ucciderli e divorarli, ed era il migliore mito a disposizione per la nascita di un nuovo genere rappresentativo dove il testo, il canto e la musica si fondevano per la prima volta dall’epoca della tragedia classica, anche se in maniera tutt’affatto diversa.

Lo sviluppo e il successo che il neonato melodramma ebbe furono imprevedibili. I musici toscani diffusero le loro partiture in men che non si dica e le raccolte di arie, di madrigali, di recitativi, di ariosi che furono composti sui testi di Rinuccini, ma anche su testi di Tasso (le ottave della Gerusalemme Liberata), Giambattista Guarini (1538-1612) (Il pastor fido), Giambattista Marino (1569-1625), Gabriello Chiabrera (1552-1638). Ma fu soprattutto Petrarca, il precursore dell’Umanesimo, l’autore fra i più saccheggiati per la musicalità del suo verso e che servì d’esempio per la poesia italiana e straniera per secoli a venire. Quelle composizioni affollano ancora oggi le biblioteche storiche e rimasero ineseguite per molto tempo, dopo il Seicento. Compositori come Claudio Monteverdi, Giulio Caccini, Claudio Saracini, Benedetto Ferrari, Stefano Landi, Francesco Cavalli, Luigi Rossi, Sigismondo D’India e una schiera infinita di creatori di melodie e recitativi struggenti e drammatici, tutti a cavallo tra Cinque e Seicento, svilupparono le possibilità della voce umana, con una raffinatezza e una propensione al virtuosismo sconosciuta al mondo classico. O, almeno, supponiamo che sia così, anche perché non ci è stato tramandato alcun trattato di canto arcaico, se mai ce ne fosse stato qualcuno. C’è da dire che, nel periodo tra quei due secoli e poi per tutto il Seicento, che fu definito “barocco” solamente nella seconda metà del Settecento, inizialmente in accezione spregiativa, uno degli elementi della poetica dell’epoca era proprio creare un’atmosfera di “meraviglia”, giacché, come ci ricorda Giambattista Marino:

 

È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir vada alla striglia.

 

Il virtuosismo, fosse idiomatico o pittorico, musicale o architettonico, era un modo per stupire l’osservatore o l’ascoltatore, uno degli artifici retorici più efficaci per comunicare emozioni. Così, da un tentativo di ricreare in modo moderno l’antica tragedia greca, scaturì la nuova e assai più complessa forma di comunicazione dell’opera lirica, il melodramma, appunto.

Soffermiamoci per un istante a considerare il lavoro che un artista fa, in un’arte rappresentativa come il canto e l’opera: un lavoro complesso quanto, se non più, gli incantesimi di Orfeo. Può aiutarci a capire come uno strumento così primitivo e profondamente soggetto all’emotività come la voce umana provenga dall’antichità e surfi sulla spuma del tempo per dirci sempre qualcosa di nuovo.

Il cantore trace, un citaredo, si esibiva colla sua lira per accompagnare il suo canto ora dolce, ora appassionato, ora triste, ora sconsolato, per cantare la serenata a Euridice o per disperarsi colle rocce e la Natura per la perdita della sposa. Andando agli Inferi per cercare in qualche modo di recuperarla, Orfeo cominciò a cantare nenie commoventi per Caronte e poi per Proserpina e Plutone, divinità ipogee, che alla fine, contravvenendo alle regole, lasciarono libera Euridice alla condizione, per Orfeo, di non voltarsi mai a guardarla prima dell’uscita dal tunnel. Nei miti, così come nelle fiabe, c’è sempre una condizione per raggiungere la felicità, nulla viene mai elargito gratuitamente, in ogni favola. Orfeo deve percorrere il cammino a ritroso, senza voltarsi. Può essere anche un messaggio in cui si evidenzia che a volte non basta ammaliare il potente di turno per vincere. Ci sono altre prove da affrontare.

 

Jean Marais in “Orphée” di Jean Cocteau (1950)

 

Il lavoro di un cantante, dicevamo, è assai più duro. La voce che l’artista userà per convincere l’uditorio dovrà essere cercata assai in profondità, non scaturisce spontaneamente e senza fatica come succedeva a Orfeo. Alla fine per lui era normale e facile aprir bocca e avere tutti ai suoi piedi, il suo era un dono celeste, derivante dalla madre Calliope, la musa “dalla bella voce”, ispiratrice della poesia epica. Per i nipotini di Orfeo i geni divini si sono molto diluiti attraverso i millenni e quindi, per recuperare il rapporto colle origini, bisogna lavorarci su molto duramente. E già: aprendo bocca per cantare si mettono in moto meccanismi neurovegetativi che nessuno normalmente sospetterebbe e si provano sensazioni ancestrali che spesso stupiscono lo stesso cantore. L’introspezione è totale ed è un cammino a ritroso dentro il proprio corpo e dentro la propria mente, che apre le porte del proprio Inferno. Il cantante deve scoprire i meccanismi più segreti e intimi della produzione del suono, deve imparare a sentire il proprio corpo in ogni sua parte, la propria respirazione, il battito cardiaco, la posizione del corpo nello spazio, l’astrazione del medesimo, la ricerca delle emozioni, piacevoli e, cosa più dura, spiacevoli, e quindi la proiezione di un affetto rielaborato al di fuori di sé, sfidando in apparenza le leggi della fisica.

Ma la faccenda è ancora più stratificata di quanto si possa immaginare. Andando ulteriormente a ritroso nel tempo, in culture più arcaiche di quella della Grecia classica, che comunque era il quadrivio dove tutte le culture di allora passavano e si concentravano, l’atto primigenio della fonazione era il respiro, anzi, era ancora precedente al respiro, era la preparazione della glottide al passaggio del fiato: il colpo di glottide.

Il colpo di glottide è una consonante, la cosiddetta “occlusiva glottidale sorda”, e si realizza chiudendo le corde vocali per fermare il flusso dell’aria per riaprirle di colpo e permettere al suono di formarsi. Di là dall’atto puramente meccanico e fisico, la consonante muta ha un significato enorme a livello mistico ed esoterico. Questo “suono senza suono” si espresse graficamente in molti modi, che si evolsero dal geroglifico egizio rappresentante il profilo sinistro di una testa bovina e che si trasmise quasi identico, stilizzato, nelle lingue protosemitiche del Mediterraneo, per diventare, attraverso stilizzazioni successive, l’aleph fenicia, mantenendo il valore fonetico del colpo di glottide, che fu conservato nella lingua semitica. I Greci, per iniziare il loro alfabeto, avendo una lingua con tutt’altri suoni, utilizzarono un simbolo derivato dal fenicio, che era appunto la prima lettera alfabetica, l’alpha, (ɑ). Che poi sarebbe diventata la nostra A, con un suono aperto ben diverso dal colpo di glottide muto, e che però lo avrebbe immediatamente seguito, dando vita al suono più utilizzato ‘Ah!’ (perbacco!), ‘Ahhhhh!’ (stupito compiacimento); ‘Aaaaaaargh!’ (paura); ‘Ahahahaha!’ (riso); ‘Ahè!’ (incitamento a calmarsi verso qualche astante molesto); ‘Ahi!’ (duolo)… e così via. Ma soffermiamoci ancora sul significato dell’aleph, perché è interessante la simbologia ad esso legata e che si interseca colla ricerca nel profondo del mistero del nostro corpo e, se vogliamo indulgere al soprannaturale, della nostra anima.

L’aleph è, nella cultura ebraica, il principio di tutte le cose, l’atto creativo di הְוֶה, Geova, Jahvè, Dio e anche Dio stesso, il suo nome. A Dio non occorre neanche pronunciare per creare, basta che dia il soffio vitale per animare qualsiasi cosa voglia. Animare, dare un’anima, dal greco ἄνεμος (soffio, vento), la parte spirituale (da spiritus, che in latino significava anch’esso “soffio”) e vitale dell’essere vivente che, secondo le religioni, sarebbe distinta dal corpo materiale. E, insieme all’omega, l’alfa chiude il cerchio dell’inizio e della fine, facendoli coincidere nell’eternità (d’altronde si può giocare sull’etimologia di “eterno” o “etterno”, ricollegandola a ex terno, fuori dalla terna del tempo: passato, presente e futuro). Le due lettere apocalittiche.

Ecco, a poco a poco ci siamo arrivati. L’indagine all’interno della produzione, cioè della creazione, di un suono vocale parte proprio dal colpo di glottide primigenio, dal significato che quest’atto creativo si porta dietro. Il cantante crea il suo suono, soffia l’anima, lo spirito, dentro ciò che trasmette all’ascoltatore, crea qualcosa che è assolutamente incorporeo ma che viene percepito da chi ascolta e quindi esiste.

Sarà una considerazione forse simile a questa che farà scrivere a Giovanni Battista Vico, citato in Michele Parma, Sopra Giambattista Vico. Studii Quattro (Milano, 1838):

“[… ] Gli è che il canto, in un ordine massimo delle cose, è superiore alla parola, e in niuna guisa soggiacente a quelle circoscrizioni che gli usi e le abitudini pongono al linguaggio: molte cantilene sono lusinghiere, inducono presto sazietà, passano; ma rimane sempre del canto quella sublime virtù di scuotere prepotentemente con la più immediata espressione dei più cari sentimenti, l’idiota e il sapiente, il fanciullo e il vecchio, il ricco e il povero, l’uomo fortunato e l’uomo infelice”.

Non sembrava così complicato, vero? Quando si ascolta la voce divina di Lucano Pavarotti (1935-2007) o di Maria Callas (1923-1977) tutto sembra liscio come l’olio ma il lavoro, anche solamente a livello intuitivo, che ci sta dietro è titanico. O, forse, in questo caso, orfico, per meglio dire.
 La produzione di ogni fonema cantato ha una sua ragion d’essere, e ogni fonema dev’essere legato all’altro, deve esprimere un senso drammatico, molto più complesso della voce semplicemente parlata. I suoni più lunghi devono essere continui e intonati, secondo l’intonazione stabilita dall’autore, non basta l’accento tonico della parola, che pure c’è, e intervengono altre misurazioni, sebbene il recitativo conservi una struttura ritmica legata al verso. E in questo suono, appunto, ci deve anche stare l’espressione.

A un certo punto, man mano che l’esplorazione della vocalità veniva approfondita e arricchita dall’esperienza dei compositori e dei cantori, in alcune arie e/o recitativi, soprattutto nei momenti cadenzali, ossia alla fine della frase o del periodo musicale, si iniziarono a inventare e introdurre degli abbellimenti. Un po’ per amor di variazione, anche perché tre ore di nenie senza fine in un registro compreso in un’ottava e mezzo, ma quasi sempre insistente sul centro della voce, senza molti cambi di tonalità, potevano risultare un po’ noiose. Gli abbellimenti, detti anche diminuzioni perché diminuivano, frammentavano la nota più lunga in molte note che dovevano essere messe in relazione col contesto armonico, in modo da ‘abbellire’, furono codificati dai cantori virtuosi dell’epoca, primo tra tutti Giulio Caccini, che con Le nuove musiche (1602) diede un’impronta virtuosistica al recitativo. Ma l’abbellimento non doveva essere fine a sé stesso. L’abbellimento era un integratore intimamente connesso alla vera arte, che era quella di muovere gli affetti, l’espressività.

I risultati si videro presto. La famosa aria di Orfeo dall’atto III dell’omonima opera (1607) di Claudio Monteverdi (1567-1643), “Possente spirto”, lamento orientato ad ammorbidire Caronte, il traghettatore infernale che avrebbe dovuto consentire a Orfeo vivo l’ingresso nel regno dei morti, cosa impossibile, ha una doppia versione. Una di esse è più lineare, fedele ai dettami del recitar cantando, dove maggior importanza era data alla parola o, forse, perché i cantori futuri potessero diminuirla a loro arbitrio secondo la propria arte. Ma, per la prima assoluta di Mantova alla presenza dei duchi, avendo a disposizione Francesco Rasi (1574-1621), uno dei più celebri virtuosi dell’epoca, Monteverdi compose anche una versione densissima di variazioni e diminuzioni assai complesse, degne del grande virtuoso, testimoniando una complessità tecnica che già doveva essere assai sviluppata. Con questi abbellimenti, presenti solamente in quest’aria e nel duetto di Orfeo con Apollo, il padre di Orfeo secondo alcune versioni del mito o, almeno, quella utilizzata dal librettista Alessandro Striggio Jr. (1573-1630), dove i due tenori duettano a suon di vocalizzi, il cantante può esprimere non solo il virtuosismo tecnico ma anche quello espressivo in grande libertà, senza rispettare strettamente la notazione ritmica indicata sul pentagramma: Orfeo può far durare di più o di meno un vocalizzo, rallentarlo o accelerarlo secondo il suo criterio interpretativo, certo, sempre all’interno di un insieme ritmico, ma assolutamente soggetto alla bravura e all’estro dell’artista.

Ma perché il cantore di tutti i cantori si esprime con un canto straordinariamente fiorito di melismi e trilli e gorghe e groppi solamente in quei punti? Perché in quei punti Orfeo si rivolge a una divinità o dialoga con lei: colle divinità, le normali canzoni e arie possono apparire banali, ci vuole qualcosa di emotivamente più forte e magari un’aria di bravura. Apollo non può che essere arcicontento che il suo figliolo lo eguagli in vocalizzi spericolati e le orecchie di Caronte, personaggio in genere assai burbero e insensibile, vengono vellicate dalla sapienza canora del trace, che lo ipnotizza e lo fa addormentare per poter passare oltre.
Il ‘basso continuo’, invenzione barocca, forniva il bordone armonico dentro il quale la voce poteva spaziare, improvvisare, scatenarsi. Nella lirica classica, la pratica del canto monodico accompagnata da una cetra si chiamava citarodica, concettualmente simile al basso continuo, ma in che termini si eseguisse, e quali fossero le indicazioni degli autori al proposito, non si sa.

Di certo la lirica greca era basata sul ritmo, l’armonia così come la intendiamo noi era sconosciuta, e la melodia si avvaleva di tre modi per esprimere gioia, mestizia e dolore: i modi frigio, mesolidio e lidio. Però il mistero della musica antica (e quindi del canto) resta irrisolto, perché le indicazioni musicali, apposte sui papiri posteriormente ai versi, furono scritte con un inchiostro che non ha resistito al logorio del tempo. Un inchiostro antipatico. Le ricostruzioni attuali di alcuni frammenti di epitaffi e inni greci sono fantasiose seppur suggestive ma non ci dicono molto di più di ciò che non sappiamo e, forse, non sapremo mai.
 Aristotele, nella Poetica, ci racconta che la tragedia nacque dall’improvvisazione, precisamente da parte di “coloro che cantano il ditirambo” in onore del dio Dioniso e ci informa anche, nella Politica, della funzione catartica del teatro e della musica. Come detto prima, non sappiamo in realtà come questa ‘improvvisazione’ si svolgesse agli albori del teatro, se si facessero dei vocalizzi, se l’improvvisazione fosse accompagnata da espressioni corporee, vale a dire danze, e se tutto fosse soggetto all’arbitrio dei coreuti, né cosa gli autori prescrivessero. La tragedia greca utilizzò il coro, un insieme di voci, in diversa maniera da Eschilo a Sofocle e, in seguito, a Euripide, fino lasciare via via maggior spazio ai singoli attori, che crescevano sempre più numericamente in parallelo all’evoluzione del teatro. I cori a poco a poco non si limitarono più all’espressione vocale ma la accompagnarono con movimenti coreografici, su una traccia musicale eseguita da flauti.

Francesco Nonni (1885-1976) – Orfeo – Xilografia

L’accompagnamento musicale della neonata opera lirica era invece affidato, come abbiamo visto, al “basso continuo” ossia a uno o più strumenti, un clavicembalo, un organo, una viola da gamba, un violone, un liuto, un’arpa, un chitarrone, a volte tutti insieme, che fornivano il tappeto sonoro su cui la voce poteva passeggiare recitando e cantando allo stesso tempo ma, a differenza del modo antico, inserendosi in un’armonia. Nell’aria di Orfeo, inoltre, alcuni strumenti sono proprio specificati da Monteverdi e sono utilizzati in funzione di dialogo colla voce: l’arpa, due violini e basso da brazzo, due cornetti, l’organo di legno, il chitarrone, proprio per sottolineare, arricchire o imitare la voce del cantante, spesso in eco, altro artificio barocco, mentre gli strumenti utilizzati nel teatro antico erano assai diversi. La versione fiorita dell’aria di Orfeo del III atto è un preannuncio inconsapevole di ciò che avverrà in futuro nel melodramma, ossia il cantar recitando piuttosto che il contrario. Al canto saranno affidati sempre più fioriture, sempre più vocalizzi, sempre più stupefacenti invenzioni, e i cantanti saranno sempre più specializzati nella tecnica vocale: l’artificio barocco, la ‘maraviglia’, la bravura, il belcanto.

Peraltro, non bisogna pensare che Claudio Monteverdi fosse sempre propenso al canto fiorito. In una delle sue massime composizioni, un madrigale in stile rappresentativo, ossia un madrigale che si poteva rappresentare come una vera opera, Il Combattimento di Tancredi e Clorinda (1624), su alcune ottave della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, Monteverdi fa specifica richiesta agli esecutori di non utilizzare alcun abbellimento, secondo le regole del recitar cantando: il cantante “Non doverà far gorghe nè trilli in altro loco, che solamente nel canto de la stanza che incomincia Notte…”. La recitazione cantata, che in questa composizione raggiunge uno dei suoi massimi storici, sui sublimi versi tassiani, in un perenne dialogo della voce con pochi strumenti ad arco e un basso continuo, era lo scopo principale da raggiungere. Il virtuosismo vocale poteva aspettare, l’espressione era più importante, i gorgheggi erano solo consentiti nell’aria della Notte, un’invocazione alla sua oscurità, al suo mistero, alle sue illusioni, ai suoi abissi, acciò che la notte stessa si disponesse a far risplendere e immortalare le imprese e la fama dei due guerrieri-amanti, che pur erano nascoste dalla sua oscurità. Simili contrasti ben potevano essere abbelliti a discrezione del narratore per meglio esprimere la congerie notturna di sentimenti e sensazioni. Il resto era la cruda battaglia di due amanti inconsapevoli, colla desolante scoperta finale di Tancredi che aveva ucciso l’oggetto del suo amore, mentre lo stile concitato della voce del narratore partecipe e degli strumenti faceva risaltare lo spirito del combattimento corpo a corpo – colle sue pause, i suoi scontri, le ferite, lo sdegno, la pietà. Un finale etereo, affidato al canto soffuso del soprano, chiude il madrigale in pianissimo, in punta di piedi, coll’ascesa al cielo dell’anima di Clorinda, ormai battezzata, tenendo il pubblico col fiato sospeso. Anche questa era la “maraviglia” barocca.

L’evoluzione del linguaggio vocale monteverdiano, nei suoi principali drammi storici e mitologici a noi pervenuti (Il ritorno d’Ulisse in patria, 1640, e L’incoronazione di Poppea, 1642, su due libretti di altissimo valore poetico, rispettivamente di Iacopo Badoer (1602-1654) e Giovanni Francesco Busenello (1598-1659), entrambi veneziani), rispetta sempre la recitazione espressiva di tutti i personaggi, non tralasciando nessun carattere, lasciando spazio alla virtuosità solo in alcuni momenti. Il virtuosismo vocale si esprime più nei madrigali degli ultimi libri, dove la voce umana, d’ogni registro, sfodera spesso vocalizzi complessi e sublimi, alternando frequentemente ariosi, ciaccone, passacaglie e recitativi all’interno della stessa composizione.

Il massimo dell’elaborazione virtuosistica vocale Monteverdi lo espresse in uno dei monumenti della musica sacra di tutti i tempi: il Vespro della Beata Vergine, 1610. Lì la voce è veramente utilizzata senza pudore e l’abilità richiesta ai cantanti è tra le più alte e specialistiche possibili. Lì c’è quasi il parossismo del virtuosismo, concesso con reticenza al recitar cantando, lì i narratori sacri devono mostrare vocalità soprannaturali, irraggiungibili, scioccanti, come se fossero onnipotenti angeli.

 

Il castrato Gaetano Guadagni, creatore del ruolo di Orfeo nell’opera di Gluck (1762)

La ‘maraviglia’ barocca, a volte, si poteva mutare in orrore. La moda degli evirati cantori, poveri bambini in età pre-puberale, dotati di voci soavi e promettenti, ai quali erano asportati gli organi sessuali per impedire lo sviluppo dei caratteri sessuali come la muta della voce, fu uno degli orrori più insani che abbia mai insanguinato l’arte del canto. La ragione perversa di queste castrazioni a fini canori (sebbene le prime notizie di questa pratica risalgano già al V secolo d.C. a Bisanzio) trae le sue origini dalla precocissima censura cristiana sul teatro e, di conseguenza, anche sul canto: le donne non potevano cantare, meno che mai in chiesa, per pregiudizio, e la necessità della musica di avere voci femminili, soprani e contralti, sia da solisti che nei cori, esigeva la presenza di voci bianche maschili per meglio cantare le lodi del Signore. Qualcuno, a quel punto, ebbe l’orribile idea di iniziare a castrare i bambini per ovviare a questa necessità. La voce dei castrati si preservava così eternamente pura, come quella dei bambini, sebbene sviluppasse un timbro assolutamente sui generis, mentre il corpo cresceva in maniera abnorme, innaturale. Spesso i castrati erano d’alta statura, con corpi ingombranti, con potenze polmonari irraggiungibili e fiati lunghissimi, esercitati da lunghi e fitti training con maestri severissimi, che a volte erano gli stessi compositori di cui gli sventurati allievi eseguivano la sublime musica, o altri castrati più anziani. La loro vita diventava un inferno dal punto di vista fisico e umano, perché gli infelici non potevano avere…

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© Massimo Crispi 2018

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