I giovani in partenza: destinazione merito
Anche quest’anno sta per finire e, puntualmente, è tempo di bilanci, purtroppo non sempre rosei. L’Istat certifica che negli ultimi dieci anni 182mila laureati hanno lasciato l’Italia alla ricerca di migliori opportunità di lavoro e questo, oltre ad avere costi sociali enormi, si traduce – secondo il Centro Studi Confindustria – in una perdita annua di 14miliardi di euro (vale a dire un punto di PIL) per la nostra economia che registra tassi di crescita molto prossimi allo zero.
I flussi migratori verso l’estero non sono certo nuovi per il nostro Paese. Ma i più recenti trend del fenomeno sono particolarmente preoccupanti perché riguardano molti, troppi giovani sui quali abbiamo investito in termini di formazione. Giovani (e meno giovani) che con il loro piccolo, grande patrimonio di competenze, sogni e speranze, sono obbligati a salpare verso altri lidi, con bassissime probabilità di ritornare. Tutto questo in un contesto globale che vede le principali potenze del mondo combattere la guerra più importante, quella dei talenti, per essere competitivi nell’economia della conoscenza e garantire un futuro prospero alle prossime generazioni.
Come rilevano le più recenti survey (PwC, 2019), i ragazzi che abbandonano l’Italia si dirigono verso paesi in grado di valorizzare le competenze e offrire idonee opportunità: in altri termini, più meritocratici. Un ragazzo su due emigra per ragioni legate al mercato del lavoro italiano (minori prospettive di carriera, stipendi più bassi) e l’85 per cento ritiene che i paesi di destinazione offrano un contesto professionale migliore, in particolare per il minore impatto di fenomeni quali familismo e corruzione.
Al di là dei dibattiti, spesso oziosi, a livello terminologico o filosofico sul tema meritocrazia, resta il fatto che l’Italia non è in grado di valorizzare al meglio il merito e la competenza nei diversi ambiti della vita sociale ed economica. Ma quali sono i reali contorni del fenomeno? E come si posiziona il nostro Paese rispetto ai partner comunitari? Per rispondere a queste domande, il Forum della Meritocrazia, con il supporto di ricercatori dell’Università Cattolica di Milano, ha messo a punto il Meritometro: il primo indicatore quantitativo di sintesi e misurazione del merito con raffronto a livello europeo. Lo strumento, giunto al quinto anno di rilevazione, si basa su sette pilastri – libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza, mobilità sociale – misurati attraverso dati provenienti da fonti statistiche ufficiali (Ocse e Eurostat).
Nel vecchio continente il ranking 2019 fotografa una situazione con i paesi scandinavi (Finlandia, Norvegia, Danimarca, Svezia) che restano il punto riferimento, seguiti dal blocco delle realtà più virtuose (Olanda, Germania, Gran Bretagna, Austria e Francia), mentre al fondo della classifica restano incagliati i paesi meno meritocratici e tra questi, ultima tra gli ultimi, l’Italia con più di 9 punti di distacco dalla penultima in classica (la Spagna) e ben 43 dalla prima (la Finlandia).
Nel Bel paese i positivi risultati registrati sulle pari opportunità (accesso delle donne alle posizioni di vertice nell’economia e nella società) e sulle regole e la trasparenza, non sono sufficienti a recuperare il ritardo accumulato nel tempo.
Le nostre performance restano insoddisfacenti specie con riferimento ai giovani. Pur registrando una lieve riduzione del numero dei NEET, rimaniamo saldamente primi in questa deprimente classifica. Inoltre, come confermano i dati Eurostat, l’Italia ha uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa nella fascia 15-24 anni, con appena il 16,6 per cento di occupati: peggio di noi, nell’UE, solo la Grecia, con la media comunitaria lontanissima al 33,9 per cento. Anche i dati sull’educazione terziaria e sugli abbandoni registrano un segno positivo ma non sufficiente ad allinearci alle medie UE, mentre la libertà – ovvero la capacità del paese di valorizzare le energie dei cittadini attraverso servizi idonei – è in peggioramento.
Nel complesso, il Meritometro 2019 restituisce l’immagine di un Paese sostanzialmente fermo nella meritocrazia così come nella ricchezza prodotta. Le ragioni di questa situazione affondano le proprie radici nella cultura che penalizza la valorizzazione del merito e delle competenze a vantaggio di altre modalità, purtroppo prevalenti, di promozione sociale, come l’appartenenza e le relazioni. Una cultura, purtroppo condivisa da una parte della popolazione, che vede (a torto) il merito come il peggior nemico dell’uguaglianza, e da alcune élite che, non spiccando per autorevolezza, etica e trasparenza, fanno leva su questi timori per cristallizzare le differenze e consolidare lo status quo. In buona sostanza, in questa originale “melassa” culturale la “mediocrazia” finisce per essere il vero motore dell’intero sistema, dalla politica al mondo del lavoro, fino alla scuola e alla formazione. Un sistema bloccato e tendenzialmente chiuso che, non riuscendo, né a valorizzare le eccellenze, né a garantire pari opportunità, finisce per scontentare tutti, tranne chi da questa situazione continua (indisturbato) a lucrare consistenti rendite di posizione.
Pur in questa stasi, qualcosa si muove, ma troppo lentamente. Gli interventi strutturali – come quelli sulla corruzione – danno buoni frutti, migliorando le condizioni di contesto. È tuttavia necessario investire anche su quei fattori che più di altri possono contribuire a produrre nuove energie per rivitalizzare il Paese, sia migliorando la qualità del sistema educativo, sia ravvivando la nostra capacità di essere attrattivi per i talenti.
La sfida non è impossibile e può essere vinta partendo dai territori, dalle organizzazioni e dai giovani, che hanno il diritto di vivere in un paese meritocratico. Basta ricordare che la meritocrazia: non si realizza per legge, ma che i provvedimenti legislativi possono e devono essere orientati al merito; non si ottiene con una delibera di un CdA, ma che le decisioni dei board e del management possono e devono essere orientate a diffondere e premiare il merito nelle organizzazioni; non è una materia d’esame, ma la scuola e il sistema educativo possono e devono promuovere la diffusione della cultura del merito tra le giovani generazioni.
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