Se il dito indica la luna lo stolto guarda il dito. Aggiorniamo questo vecchio detto. Se un parlamentare con partita IVA riscuote il bonus, lo stolto si scandalizza per il bonus. E in effetti nessuno si è scandalizzato del fatto che i nostri parlamentari tengano aperte le loro partite IVA e che, nella migliore delle ipotesi, i nostri massimi organi di rappresentanza siano una sorta di dopolavoro, o, nella peggiore, siano un crogiuolo di interessi particolari: non tanto una casta, ma una camera di rappresentanza di caste.
A nessuno è venuto in mente di porre la domanda di quanti siano i parlamentari che proseguano la loro attività nella società civile, e che per questo tengano la loro partita IVA aperta, o comunque non “dormiente”. Parliamo di imprenditori e partite IVA e non di funzionari del settore privato e pubblico, per i quali il problema non si pone. Posso testimoniare infatti che il collega Luigi Marattin con il quale ho condiviso l’ufficio è in congedo senza assegni dall’università dal momento in cui è stato eletto a Monte Citorio.
Ma che male può fare un parlamentare che continua a praticare la propria professione? In fondo il fastidio che ci reca dalla televisione la solita senatrice storica della destra che inveisce contro il governo e la politica urlando – “noi imprenditori” – dal suo locale sulla spiaggia è un danno minore: basta cambiare canale. E anche pensare che questi parlamentari con partita IVA oltre a viaggiare gratis senza dover rendere conto a nessuno, possano scaricare dalle tasse la benzina e persino il caffè al bar può sembrare un bieco lamento populista. Ma se pensate a professionisti che siedono in consigli di amministrazione o collegi sindacali di grandi aziende o a grandi avvocati di affari la questione dovrebbe apparire seria anche a chi oggi di fronte al referendum sul taglio dei parlamentari solleva questioni di “deficit di rappresentanza”.
Chi rappresenta un grande avvocato di affari che continua la propria attività professionale anche quando è parlamentare? Rappresenta l’interesse dei suoi clienti o l’interesse pubblico? E come si comporta se questi sono in conflitto? Non sono esperto di normative parlamentari, ma non ricordo di aver mai sentito di un procedimento o una sanzione per conflitti di interesse di questo tipo. Anche vicende recenti, in cui ha avuto rilevanza giudiziaria il fatto che un sottosegretario abbia o meno ricevuto pressioni per introdurre una norma in un disegno di legge, non risulta che siano state in violazione di alcun regolamento parlamentare. Per essere chiari, uno che introduce una norma per propri interessi personali, pecuniari o no, non è sottoposto a nessuna regola, neppure quella di rendere trasparente il proprio conflitto di interessi. E’ esposto solo alla responsabilità più ridicola di tutti: la responsabilità politica di non essere rieletto.
Poi c’è la domanda di come facciano i proprietari di partita IVA a continuare a esercitare la loro professione con l’enorme carico di lavoro dell’attività politica di cui si favoleggia. Evidentemente si tratta realmente di favola. Dove trovano il tempo per sedere nelle commissioni, fare interrogazioni, stare sul territorio, e partecipare ai talk show serali? Semplice, sniffano, si direbbe citando un immortale sketch di Angela Finocchiaro sulla giornata della brava madre. Senza escludere a priori questa risposta, che ci ricorda vecchi servizi delle Iene, quella più attendibile è che il carico dell’attività di legislazione e rappresentanza è sovra-stimato. E allora richiedere a chi entra in parlamento di chiudere la partita IVA e sobbarcarsi di lavoro finalizzato all’interesse pubblico, magari estendendo i confini di questo lavoro, migliorerebbe l’efficienza della politica. La riduzione del numero dei parlamentari, aumentando il carico di lavoro, andrebbe nella stessa direzione.
E’ comunque chiaro che la riduzione dei parlamentari non risolve problemi di rappresentanza delle dimensioni di quelli cui abbiamo accennato. Ma certo il problema della rappresentanza che viene sollevato, e non definito e discusso, a proposito della riduzione del numero dei parlamentari sarebbe ridimensionato dalla riduzione del numero dei parlamentari e non certo aumentato. Certo che ci vorrebbe ben altro. E allora la politica potrebbe guardare a un’altra attività che è parimenti svolta per passione e prestigio, più che per soldi: l’attività accademica. Anche i professori universitari a tempo pieno possono svolgere delle attività professionali, ma in maniera trasparente e previa autorizzazione. Anche le camere potrebbero istituire una commissione di autorizzazione a svolgere compiti professionali esterni all’attività parlamentare. E si potrebbero definire esplicitamente casi in cui l’autorizzazione non può essere data, mentre per il resto l’attività della commissione darebbe un importante contributo alla trasparenza. Qualunque elettore potrebbe verificare se un parlamentare rappresenta il paese o qualcun altro.
Una proposta che nessuno raccoglierà mai, ovviamente. Perché intaccherebbe la completa libertà che deve essere lasciata al politico: anche la libertà paradossale di non fare politica, e di fare invece i propri interessi. Tutto nella certezza che la scure terribile della “responsabilità politica” sia l’incentivo giusto ed efficace: non poter continuare a fare i propri interessi a spese della collettività per il futuro, senza nessuna sanzione su quello che si è fatto in passato.
In realtà, il mio sarcasmo nasce da lontano, da quando avevo diciassette anni. Allora ho capito che la democrazia in Italia non poteva funzionare. Ricordo che tutti gli anni un’altra classe del liceo andava in gita scolastica a Parigi, a Venezia, e così via, e noi ci mandavano sempre a Poppi, bel posto, ma a 50 chilometri da Firenze. Scoprimmo che quelli che andavano a Parigi avevano un merito importante: il padre di un’alunna era presidente del consiglio di istituto. Quando protestammo, questo, che senz’altro doveva avere una partita IVA, fece i conti e ci disse che “non c’erano i soldi”. Tutto finì con un tentativo sovversivo di gita non autorizzata di tutta la classe a Venezia, ma qualcuno parlò e venimmo tutti minacciati di sospensione. E siccome eravamo all’ultimo anno non abbiamo neppure avuto la soddisfazione di sapere se quel coglione di genitore abbia almeno subito la terribile “responsabilità politica” del suo comportamento.
E’ chiaro che un rappresentante di un consiglio di istituto sta a un parlamentare come un praticante di calcetto del giovedì sta a un calciatore professionista della massima serie. Eppure pare che gli incentivi siano gli stessi. Se la tua squadra perde (diciamo 8 a 2, per esempio?) tu prima di pensare alla squadra pensi a te stesso. Nello stesso modo, trovi chi fa i propri interessi in un consiglio di istituto e nel parlamento della Repubblica.
Quindi, la cultura della rappresentanza in Italia è un’utopia, e la responsabilità politica è un ossimoro. Ma c’è un paradosso che una volta tanto induce all’ottimismo: i sindaci, e la classe politica intermedia in genere. Se a un estremo ci sono genitori che siedono in organi d’istituto perché non hanno altro da fare e per dare un tono alla loro esistenza (ho ancora il dente avvelenato, come sentite) e all’altro estremo ci sono parlamentari e senatori che considerano la politica un lavoro molto ben pagato cui si può accedere senza nessuna qualifica e nessun concorso (e su questo sono invece obiettivo), in mezzo c’è una classe politica di persone che si interessano della cosa pubblica sul territorio, poco pagati e ciò nonostante molto motivati. Persone per le quali non siamo in grado di dire perché lo fanno, se non richiamando a una cosa che si chiama: interesse pubblico, voglia di risolvere problemi per il solo fine della propria reputazione, onore e riconoscenza da parte della collettività.
Questo panorama ci fornisce quindi una soluzione al tema della rappresentanza, senza che sia una parola vuota o che venga declinata nell’accezione negativa di “clientela”. Si allineino gli incentivi dei massimi rappresentanti della classe politica a quelli della classe politica intermedia sul territorio. Si garantisca a tutti la possibilità di fare politica, garantendo un reddito di sussistenza ma non l’arricchimento (se non quello che possa venire come conseguenza della propria reputazione e onore). Riduciamo gli stipendi e il numero dei rappresentanti del centro, aumentandone il carico di lavoro, e facciamo l’opposto per chi fa politica in periferia. Mettiamo in palio solo l’onore e allora il numero giusto di politici, al centro e alla periferia, emergerà come il risultato più semplice e scontato.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.