Dove stiamo andando?
Spesso scrivo per facilitare i miei ragionamenti, per mettervi ordine. Lo faccio anche per dar loro un’organicità che altrimenti non potrebbero avere, perché si perderebbero l’uno sopra l’altro. E i fatti degli ultimi tempi mi stanno dando molto materiale su cui riflettere: in che condizioni siamo, dove stiamo andando, i rischi che potenzialmente potremmo correre. Forse saranno appunti confusionari per qualcuno, ma credo che tutte le cose si tengano assieme, che ognuna sia collegata all’altra, e parlare di una di queste cose ignorando le altre vorrà dire soltanto affrontare una parte del problema senza tener conto del quadro completo.
L’avanzata delle forza radicale e\o antisistema
È una cosa di cui parlai a fine maggio, quando alle elezioni presidenziali in Austria perse di poco il candidato dell’estrema destra. Di fronte alla perdurante mancanza di risposte convincenti da parte dei partiti classici di centrodestra e centrosinistra, l’elettorato si sta spostando sempre più verso quelle offerte politiche più radicali che invece propongono soluzioni immediate, anche se spesso irrealizzabili. Forze che si giocano la carte di essere estranee a quel potere che negli ultimi decenni ha portato alle attuali condizioni sociale ed economiche, attraverso crisi finanziare che hanno progressivamente impoverito e indebolito la gran parte dei ceti sociali. In misura e con motivazioni diverse vediamo nascere e crescere movimenti come lo Ukip in Gran Bretagna, il Front National in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, Alternative far Deutschland in Germania, Syriza e Alba Dorata in Grecia. Ma anche la Lega Nord o il Movimento 5 Stelle in Italia, i Finnici di Timo Soini in Finlandia, il Partito del Popolo in Danimarca, Diritto e Giustizia in Polonia, le stesse candidature negli Stati Uniti di Trump e Sanders. Si, ci metto anche loro due, se è vero tanto è vero che Trump corteggia spesso l’ala più arrabbiata dell’elettorato di Sanders. Forse la rappresentazione più plastica del fatto che gli schemi destra-sinistra sono ormai saltati, con l’elettorato che si muove molto più liberamente d un tempo attraverso entrambi i campi. Ma anche fra i commenti del dopo ballottaggio in Italia, alle recenti amministrative, ne ricordo un paio di Alessandro Gilioli, giornalista de L’Espresso, raccontare come avesse incontrato elettori indecisi se votare Fassina o Salvini. O riportare di un elettore che, all’uscita dai seggi, si vantava di “averlo buttato in culo a quelli [il Pd]” sia per l’elezione a sindaco che per quella nel municipio di zona. Elettori che tralasciano le ideologie, che votano contro, andando a rafforzare proprio quei movimenti post ideologici che cercano di cavalcare la frustrazione delle persone e che hanno di fatto scardinato quel bipolarismo in cui tutti sonnecchiavano placidamente.
Il “voto per odio”
È quello che accennavo prima, una fetta di elettorato in grande crescita, quelli che non votano per qualcuno o qualcosa, ma contro qualcuno o qualcosa. Contro un politico, contro un partito, contro una visione del mondo, contro delle politiche applicate dal governo, contro l’idea dominante di società. Ma anche contro gli immigrati, contro gli stranieri in generale, contro le élite politiche e tecniche. Potete scegliere liberamente la motivazione: spesso se ne riscontrano anche più di una assieme. Qualcuno dice che è l’arrivo al potere dell’ignoranza, ma trovo che sia una visione un po’ troppo semplicistica: forse una parte dell’elettorato può esserlo, ma non credo che tutto l’elettorato che “vota per odio” lo faccia per ignoranza. Prendiamo l’esempio delle comunali a Roma: escludo che tutti quelli che hanno voluto punire il Pd siano classificabili come ignoranti, il grande travaso di voti che ha portato alla vittoria la Raggi è dovuto a persone di ogni tipo che erano stufe e schifate tanto dalle gestioni del centrodestra che da quelle del centrosinistra. Le persone vogliono risposte alle loro istanze, vogliono sapere cosa i politici faranno per accorciare la forbice sociale, cosa faranno per far diminuire la povertà delle persone, cosa faranno per migliorare i servizi, per la scuola, la sanità, per il lavoro. Sentono di vivere un progressivo impoverimento e non vedono effettivi benefici da chi li governa. In questo contesto chi detiene il potere si trova davanti a ondate sempre maggiori di malcontento che si accumula, il famoso odio, e che trova sfogo in chi quell’odio cerca di accarezzarlo, blandirlo, soggetti che propongono scelte semplici e radicali per risolvere quei problemi complessi che tanto preoccupano le persone. E le persone, spesso esagerate, finiscono per votare questi soggetti non tanto perché credano continuamente in quelle proposte, ma perché ormai completamente sfiduciate e rancorose verso quelli che per anni hanno promesso loro soluzioni senza mai riuscire davvero a farlo. Ancora Gilioli condensa questa deriva come la contrapposizione tra establishment e anti establishment. Ma come contrastare questo comportamento?
Il ritorno delle ideologie
Qualcuno, giustamente, auspica un ritorno delle ideologie, si augura che la destra torni a fare la destra e che la sinistra torni a fare la sinistra. Ha senso in un contesto ormai apertamente post ideologico? In un certo senso si. Ovvero in quello in cui si deve cercare di rispolverare e riportare in auge quelle visioni politiche oggi annacquate, perse dentro quel marasma indistinguibile che è diventata la politica odierna. Ma attenzione: dal mio personale punto di vista questo non vuole dire regredire alle ideologie del novecento, ma è più la necessità di dare vita a nuovi paradigmi, di creare nuovi contenuti, nuove prospettive, nuove idee che ridiano smalto e attualità alle parole destra e sinistra. Una semplice rispolverata delle ideologie del passato sarebbe ugualmente deleterio in una società ormai radicalmente cambiata rispetto al passato. Servirebbe uno slancio filosofico e morale che dovrebbe puntare alla nascita di nuove visioni, di nuovi concetti politici. Ma chi oggi potrebbe essere il protagonista di un nuovo pensiero politico futuro? Detto fuor di metafora: chi potrebbe essere ad esempio a sinistra oggi il nuovo Marx, capace di ribaltare, innovare e rilanciare le ideologie socialiste e comuniste? Chi potrebbe ridefinire gli spazi politici in modo che le persone tornino a potersi sentire rappresentate da uno schieramento politico chiaro e determinato?
L’importanza delle condizioni economiche e sociali
Non va però dimenticato che, di fondo, tutti questi problemi derivano dalle precarie condizioni economiche e sociali che una sempre maggiore fetta di persone vivono ogni giorno sulla propria pelle. L’esasperazione nasce da li: dal constatare che il proprio stipendio ha sempre meno potere d’acquisto, che è sempre più difficile trovare un lavoro nel caso lo si dovesse perdere, che l’ascensore sociale non solo è bloccato ma è ormai fuori uso da decenni, che i servizi sono sempre di meno e sempre più di scarsa qualità. Tutto questo, unito alle croniche mancanza di risposte del ceto politico, hanno innescato quella rabbia che ha portato il popolo a voltare le spalle ai partiti tradizionali. In Europa questa situazione si è spesso trasformata in un declino del classico bipolarismo in favore di un tripolarismo in cui nessuna delle tre maggiori forze politiche riesce da sola ad avere la maggioranza per governare. Lo accennavo prima: le forze dell’establishment si trovano oggi in serissima difficoltà per le oggettive mancanza di risposte e di interventi concreti verso gli strati di popolazione più in difficoltà, e questo indipendentemente se queste forse siano di destra o di sinistra. Entrambe ne fanno le spese alla stessa maniera, a vantaggio di quelle forze anti establishment che fino ad oggi sono sempre rimaste all’opposizione e che possono invece fare promesse più grandi e importanti, consce del fatto che fino a che non saranno al potere non avranno l’onere di metterle in pratica. Ma catturano interesse, creano consenso, anche grazie al perdurare delle condizioni di povertà, di emarginazione, di precarietà. Più le persone si stancano, più diverranno facili prede di proposte demagogiche e qualunquiste.
La democrazia è quindi in pericolo?
Qualcuno ha iniziato a chiederselo, anche se il dibattito ha preso una piega un po’ controversa. Soprattutto dopo il referendum inglese, molti hanno rilanciato l’idea della necessitò di un voto informato, di una sorta di patentino per ottenere il diritto di voto. Posto che il voto per censo o per grado sociale o di istruzione è qualcosa che si è combattuto agli inizi del novecento, e che una delle maggiori conquiste di libertà è stato proprio il suffragio universale, è altrettanto vero che esiste un grosso problema di educazione civica delle persone. Compito della democrazia sarebbe quello di investire tempo e denaro per fornire un’istruzione a tutti cittadini: la scuola dovrebbe servire anche a questo, lo diciamo spesso, a formare i cittadini di domani. Che allora si faccia. Banalmente mi viene in mente una cosa: nella scuola non dovrebbe esserci delle ore dedicate all’educazione civica? Studiare la Costituzione, i diritti e doveri di ogni persona, l’impianto generale dello Stato e via discorrendo. Viene fatto? E se non viene fatto, perché non ci si preoccupa di farlo, e di farlo al più presto? Prima di istruire le persone rendendole edotte su qualsiasi tipo di argomento, si dovrebbe fornire loro gli strumenti per sviluppare un proprio senso critico, quello che dovrebbe rendere le persone capaci di discernere fra una notizia vera e una menzogna. Oggi ognuno di noi è bombardato da un’innumerevole quantità di dati e informazioni, ma molti non hanno le capacità cognitive per distinguere le informazioni vere da quelle manipolate o costruire in modo artefatto. Occorre investire, investire e ancora investire, la democrazia rappresentativa non esime gli elettori dai loro compiti una volta che hanno eletto i propri rappresentati in Parlamento. Togliere agli elettori la voce non è la soluzione all’imbarbarimento, è solo un modo per accelerarne il processo.
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