L’Europa che non c’è

21 Novembre 2022

«Come immaginare il futuro di un’Europa che è stata investita da una terribile pandemia e che l’invasione dell’Ucraina ha costretto a interrogarsi ancora sulla propria ragion d’essere e sul proprio ruolo?»

Il nuovo libro di Guido Crainz (Ombre d’Europa, Donzelli) a ragione parte da questa domanda, per risalire lentamente alla fonte.

Infatti, lo scavo per individuare la genealogia del disagio del nostro presente evidenzia che il profilo di quella crisi ha una archeologia che forse è consustanziale al momento stesso in cui l’Unione Europea ha tentato di ritagliarsi pubblicamente un ruolo non più solo regionale comunque non più solo economico, ma soprattutto politico.

Su quella archeologia Crainz con acutezza scava. Anche perché, come spesso avviene, la genealogia ci spiega il lungo percorso delle cose che abbiamo di fronte senza che nel momento in cui quel dato si manifestava avessero l’attenzione che meritavano.

 

Crainz con molta competenza individua tre profili precisi che descrivono la natura profonda di quella crisi.

Il primo riguarda il voto sull’approvazione o meno del Trattato europeo. Maggio 2005.

In Belgio, Olanda, Francia il voto è incerto. Tra tutti il quadro più inquieto è quello francese. Il paese si spacca letteralmente a metà. L’immagine è quella di un paese stanco, di una realtà che non ha motivazioni e che lentamente prende congedo dalla politica. Forse l’indizio più ficcane lo comunica un film che esce all’inizio dei quel2005 (in Italia arriva nel marzo dello stesso anno). Si tratta di Le passeggiate al Campo di Marte, il film che Robert Guédiguian ha dedicato agli ultimi mesi della vita del Presidente François Mitterand.

È il 1994. Mitterand è al termine del suo secondo mandato presidenziale. In quei mesi, e il film sembra insistere su questo aspetto, Mitterand, nel mentre è in lotta con il tumore che avanza, si trova coinvolto e sommerso in una campagna politica che lo vuole riportare a confrontarsi con la scelta, con il passaggio di campo da destra a sinistra.

Il centro del film è in una battuta sfuggente ma tagliente «Io sono l’ultimo re – afferma a un certo punto il protagonista – l’ultima figura politica, che abbia il senso del tragico. Dopo di me verranno i contabili, i funzionari, gli impolitici.»

Sullo sfondo c’è l’Europa di Maastricht, il tramonto della nazione come storia collettiva. In breve la percezione che la dimensione pure agognata dell’Europa si produrrà per via amministrativa. Alla fine il trionfo della politica come tecnica, come ingegneria istituzionale. In altre parole la fine della politica.

Il secondo indizio è nella replica a questa condizione che in gran parte è espressa dagli ultimi arrivati nella UE, ovvero le realtà uscite dall’ex blocco sovietico, e che ora si percepiscono come l’identità dell’Europa perché avvertono la forza politica dei propri confini ad Est.

In forza di questo ruolo il loro problema è quello di assumere una funzione rifondante del patto costituente della Ue. Che avvertono come nata in conseguenza della confitta del comunismo e non come i paesi fondatori, come risurrezione dalla lotta di liberazione antifascista.

È un confronto che riguarda il primato culturale e identitario dell’Europa che a lungo rimane sottotraccia e che formalmente sembra risolversi con la votazione della Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa che parte dal principio della lotta al totalitarismo avendo come primo punto la lotta al comunismo e assumendo come data di memoria non più il 27 gennaio 1945 (il giorno della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ma il 23 agosto 1939,il giorno del patto Molotov – Ribbentrop.

Ne discende un conflitto culturale e simbolico in cui le destre tendono a far coincidere il concetto di Europa con lotta al comunismo, e le sinistre con lotta al fascismo (la questione del 25 aprile è solo un annuncio di questo confronto).

Se il confronto in Europa è tra 9 novembre e 27 gennaio, in Italia ancor più dirimente è quello del 10 febbraio con il 27 gennaio. Un confronto che è rimasto sotto traccia, ma che è destinato ad emergere con forza tra due mesi.

Il terzo indizio è la rimessa in questione del modello stesso di sviluppo che ora riconduce a riconsiderare se il processo di costruzione dell’Europa debba esser pensato come la fondazione di un soggetto che include, ma soprattutto supera la dimensione nazionale e quella statale, o se invece debba pensarsi come un patto tra attori nazionali che rimangono nelle loro funzioni e con vergono su politiche di interesse comune.

Su questo terzo fronte probabilmente sarà interessante vedere quanta strada davvero sui possa percorrere.

Perché se i rapporti di forza tendono a far prevalere governo di centro destra o di destra nei vari paesi dell’UE allora è probabile che si possa prevedere che una ricomposizione delle misure volte al contenimento o al filtro degli arrivi dei flussi migratori.

«Vittoria di Pirro» perché la sfida poi è pensare una politica europea che non sia intendere «aiutiamoli a casa loro» con «fatti loro», ma sia pensare politiche complessive di intervento che sostengono e riorganizzano economie, territori, produzioni agricole, che si possono sostenere non con accordi bilaterali tra singoli stati, ma come conseguenza di una politica continentale che propone un piano di intervento pluriennale che per ora non c’è.

Per questo manca prima di tutto un visone culturale, prima ancora che economica o politica. Servirebbe, scrive Crainz una visione che parte dal presupposto di volere un futuro comune e non fondato su visioni complottiste o vittimarie (su cui invece si sta costruendola l’autocoscienza europea).

Esattamente ciò che non c’è o che in questi ultimi anni è andato dissolvendosi.

TAG: Donzelli editore, François Mitterand, Guido Crainz, Robert Guédiguian
CAT: Politiche comunitarie

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