Musica

Roma: Lohengrin. Il mondo non è pronto per rinunciare alla violenza della storia

Lohengrin a Roma. Michieletto, il regista, ci fa vedere l’incompatibilità di un mondo privo di conflitti e il mondo della storia condannato alla violenza. Mariotti, il direttore, ce ne fa sentire lo struggimento.

2 Dicembre 2025

Ai saluti finali Michieletto è stato subissato di buh da una parte, non consistente, del pubblico. I soliti tradizionalisti delusi che nella messa in scena di un’opera di cavalieri medievali rimpiange lance, scudi, elmi, e tutto l’apparato pseudorealistico con cui molti s’immaginano il Medioevo. Dimenticano che l’immaginazione del fantastico, dall’Ottocento a oggi, ha subito molti cambiamenti: ci sono stati Odissea 2001 nello spazio, Guerre stellari, Harry Potter, Il signore degli anelli, e così via. Robert Bresson, è vero, nel 1974 girò il bellissimo Lancelot du lac, titolo malamente tradotto in italiano con Lancillotto e Ginevra, perché certo un amore famoso andava esplicitato anche nel titolo, e la rappresentazione del mondo medievale è realistica, perfino brutale, l’assenza di una musica nella colonna sonora fa sentire solo i rumori delle corazze, dei calzari che calpestano le pietre. Ma è proprio questo realismo esasperato e tutt’altro che decorativo, patinato, a comunicarci l’idea di quanto sia nostro, attuale, contemporaneo quel mondo lontano. Lancillotto appartiene alla stessa saga alla quale appartiene Lohengrin, e tutti sono in cerca o vengono dal Gral. Lohengrin è quindi una leggenda legata al Gral: figlio di Parsifal, di lui si parla nel poema di Wolfram von Eschenbach, Parzival. Ma il poeta che ispira Bresson, Chrestien de Troyes, il più grande poeta medievale prima di Dante, è anche l’ispiratore del poeta tedesco Eschenbach. che scrisse il suo poema traendolo dal romanzo di Chrestien Perceval. Tutta la saga acquista così un carattere unitario. Vi si aggiunge anche la leggenda di Tristano, due poeti francesi la raccontano, Béroul e Thomas, e il poeta tedesco Gottfried von Strassburg ne rielabora un poema o romanzo che fu la fonte del dramma di Wagner. Così come Eschenbach è la fonte sia per il Lohengrin sia per Parsifal. Il nodo della leggenda di Lohengrin è un divieto: alla donna che convola a nozze con lui pribisce di chiedergli chi egli sia, da dove venga e di che natura sia. Ora, il motivo del divieto di guardare o di saper qualcosa, è tipicamente fiabesco, e molto antico, si trova anche nel mito greco, per esempio nella storia di Zeus e Semele, la madre di Dioniso, Zeus impone alla donna di non chiedergli mai di farsi vedere nello splendore della sua divinità, perché chi vede un dio muore folgorato (è un motivo che c’è anche nella Bibbia), il tema compare anche nella fiaba di Amore e Psiche, raccontata da Apuleio nelle Metamorfosi. Il divieto tocca il confine dell’incontro tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno, tra il mondo degli uomini e quello degli dei, degli spiriti. C’è anche qualcosa che troviamo nel mito di Andromeda: Lohengrin accorre per salvare Elsa dalle accuse ingiuste di Telramund così come Perseo per salvare Andromeda dalle fauci di un drago. L’amore che Lohengrin chiede a Elsa è tuttavia irrealizzabile, perché le chiede di essere amato solo come uomo e non come l’eroe divino che l’ha salvata. Ma lui è un eroe divino che l’ha salvata. Nel groviglio di contraddizioni Elsa si perde, non ha una fede sufficientemente forte per accettare l’inaccettabile: di non conoscere chi sia veramente l’uomo che ama. Qui entra in gioco anche la teologia di Lutero: l’uomo, per Lutero, si salva non per le opere che compie, bensì per la fede che la Grazia di Dio gli concede. E la fede non è un atto della volontà, ma un dono di Dio. Damiano Michieletto vuole rendere evidente al pubblico il contrasto e l’incontro di questi due mondi, il terreno e il celeste. Paolo Fantin, lo scenografo, gli costruisce una scena unica costituita da un lungo muro circolare di legno, materia stabile, concreta, al quale si contrappone il mondo liquido dell’acqua, lo stagno in cui affoga il bambino, una vasca da bagno, l’argento che si fonde, il monolite d’argento che colando si fa strumento del giudizio di Dio: si accende sul braccio di Telramund, resta liquido freddo che scorre su quello di Lohengrin. La costumista Carla Teti disegna abiti contemporanei per tutti i personaggi, a mettere in risalto l’attualità dell’azione teatrale. Quando, sulle note aeree, trascendenti del preludio, che alludono a un mondo sovrannaturale, comincia l'”opera romantica”, come Wagner definisce il suo lavoro, si alza il sipario e si vede una donna che guarda dentro la vasca- stagno bianca. Affonda le braccia nell’acqua, estrae una maglietta azzurra e dei calzoncini rossi. Li stende su una sedia, la maglietta sullo schienale, i calzoncini sulla base. Si anticipa così la conclusione della tragedia, il bambino creduto morto che ricompare alla fine, è insieme l’origine e il filo rosso di tutta la vicenda. Tutta la rappresentazione acquista così una coerenza, e una continuità che fanno pensare all’epica. C’è poi l’uovo, che cala dall’alto, che è rinchiuso in una teca, che è aperto da Elsa e ne esce una pasta nera, sul quale Telramund versa un filtro d’argento da una coppa preparata da Ortrud che assomiglia al Gral, magia nera può darsi contrapposta al prodigio benefico dell’inviato celeste, e il singolo uovo diventa una pioggia di uova nel finale, può darsi lo scrigno dentro cui si racchiude l’origine della vita. Ma dentro il quale Elsa, che vorrebbe indagarlo, non incontra che una pasta nera, una pece che acceca, come la pece dei barattieri nell’Inferno dantesco. La stessa pece, che nella scena del commiato di Lohengrin dal mondo, annerisce gli occhi del popolo. I due regni, l’aldiquà e l’aldilà restano separati, l’atto di fede che avrebbe salvato l’umanità non si è compiuto e l’umanità resta condannata alla sua storia di violenza. La navicella che conduce Lohengrin al mondo terreno è una piccola bara bianca con il bassorilievo stilizzato di un cigno. Ortrud a un certo punto apre la bara e ne saltano fuori le penne dell’uccello. Ma poi il bambino compare a significare che anche la morte è qualcosa d’inafferabile, indecifrabile, il limite, o il confine, tra l’apparire e lo scomparire, inafferrabile. Lohengrin è forse l’opera più disperata di Wagner, più disperata perfino dell’Anello del Nibelungo, del Tristano, dei Maestri Cantori. Gli dei, alla fine del Crepuscolo degli dei, sprofondano nel niente, nel niente si annientano Tristano e Isotta, il mondo quotidiano, come canta Hans Sachs nei Maestri Cantori, è un mondo di follia, ma in ogni caso c’è un sacrificio, un atto di amore, quello di Brunilde, che redime, c’è un’intimità nascosta ma eterna dell’amore, sia pure affondato nel nulla, come morendo canta Isotta, c’è una vita che bene o male conduce fino in fondo la sua voglia di riproduzione, e Walter sposa felicemente la sua Eva. La partenza di Lohengrin, invece, lascia il mondo alla violenza, alla distruzione, alla morte.

Ma, se la parte visiva, e l’azione, del dramma wagneriano trovano nell’invenzione di Michieletto una realizzazione coerente, più contraddittoria appare la realizzazione musicale. Michele Mariotti, alla sua prima prova nella concertazione di un’opera di Wagner (Lohengrin non è ancora un dramma musicale ma, come lo definisce lo stesso Wagner, è un’opera romantica: Weber, l’Oberon, l’Euryanthe, stanno dietro ogni pagina della partitura), coglie assai bene questo messaggio di disperazione, e lo esprime nello struggimento esacerbato che comunicano le melodie lunghe, insistenti, che caratterizzano i momenti più significativi della vicenda, una melodia che sale cromaticamente, che si ripete, e che alla fine cade, si chiude in sé stessa: nel primo dialogo tra Elsa e l’eroe, nella conclusione del dialogo tra Elsa e Ortrud, un contrappunto a due voci – le altre sono giù nell’orchestra – in cui Elsa si perde nel suo sogno d’amore e simultaneamente Ortrud insinua, cupa, che proprio l’orgoglio di questo sogno la perderà, è un momento magico, il male e il bene si confrontano, si sommano, ma non coincidono, è un momento, anzi, in cui il male appare in tutta la sua devastante invadenza, che non è chiassosa, mostruosa, ma dolcissima, seducente, e infine, terzo momento, il commiato dell’eroe, dopo un canto d’infinita dolcezza, si ascolta una nebbia grigia cadere sul mondo. Mariotti non domina, tuttavia, con uguale fermezza tutti i momenti dell’opera: i momenti concitati appaiono talora un po’ troppo chiassosi, poco nitidi. Ma è cercare il pelo nell’uovo, per un’interpretazione che dall’inizio alla fine è sempre di altissimo livello. Più nette, invece, le differenze di proprietà interpretativa e musicale tra gli interpreti sulla scena. Solo tre figure, tra i personaggi principali, emergono davvero appropriate: la Ortrud di Ekaterina Gubanova, dall’impostazione vocale sicura e piena di sfumature, lo squillo netto, la finzione, la seduzione morbide, sinuose, l’aggressione sfacciata, selvaggia, ma sempre con un perfetto controllo della voce e dei gesti e una ugualmente perfetta corrispondenza tra il gesto vocale e quello scenico. La segue, sia pure con qualche incertezza, soprattutto nel controllo della voce, Dmitry Korchak nella parte di Lohengrin, che appare sempre convincente come personaggio, passando con naturalezza dai toni miti ai momenti d’ira, di fermezza, è sia l’amante tenero sia il guerriero inflessibile, l’eroe deluso e l’amante disperato: “un anno, solo un anno!”, dice a Elsa, partendo, sarebbe bastato per attuare una inimmaginabile felicità, la voce sembra spezzarsi, ma appunto “sembra”, è un effetto teatrale, un codice della recitazione, perché ciò che comunica è lo schianto di una commozione inconsolabile, non una mancanza di proprietà vocale. Impeccabile, anche scenicamente, l’araldo, Andrei Bondarenko. Rude, invece, isterico, più cantante veristico che attore cantante di un’opera romantica, con voce perfino talora sgraziata, il Telramund di Tómas Tómasson. Avrebbe potuto farne uno strumento di recitazione, di questa sua rudezza, e forse era questa l’intenzione, resta invece un’attuazione fuori stile, una dizione sgraziata, un canto volgare e impreciso. Poco incisivo, senza carattere, anche il Re Enrico l’Uccellatore di Clive Bayley. anzi forse addirittura il punto più debole del cast. Ma, per fortuna, tra i comprimari, e cioè nel resto della compagnia, ognuno, da parte sua, assolve benissimo al proprio compito. In Wagner non esistono. del resto, parti secondarie. Non è contrappuntistica solo la scrittura musicale, ma giocano parti che si confrontano, si combinano, indispensabili, tutte le voci del dramma. Compresi il coro e l’orchestra, anch’essi personaggi dell’azione. Perché. a differenza del teatro francese e italiano, che, come anche il teatro spagnolo, dove è l’azione a farsi pensiero, significato della recita, il teatro tedesco trasforma il pensiero in azione, da sempre, dal teatro barocco di Andreas Gryphius, di cui vergognosamente non è stato tradotto e pubblicato in italiano nessun dramma, al Goethe del Faust, ma anche del Goetz von Berlichingen, da cui Sartre ha tratto il suo Il diavolo e il buon dio, o dell’Egmont, a Hofmannsthal, a Brecht, e se si vuole includere anche il teatro musicale romantico e no, le Scene dal Faust di Goethe di Schumann, o, prima ancora, perché no? il Flauto magico di Mozart, che non a caso piacque a tal punto a Goethe che ne scrisse un seguito. E benissimo, dunque, in questa impostazione di un gioco che coinvolge tutti, hanno risposto alle intenzioni del direttore l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma. Era la serata inaugurale della stagione 2025-2026. Teatro pieno, con un tutto esaurito. Lohengrin non si vedeva a Roma da mezzo secolo! Tanto per smentire la favola che agli italiani Wagner non va giù. A chi? Il teatro pieno dimostra proprio il contrario. Il pubblico ha perciò festeggiato calorosamente tutti gli interpreti, ma, come si è detto, una parte, che non è quella a cui non piace Wagner, visto che stavano là a vederlo e ascoltarlo, ma quella che prende come un affronto il fatto che un regista si permetta di non rispettare le didascalie del libretto o, meglio, che interpreta come un affronto qualunque libertà un regista, a loro parere, si prenda rispetto alle didascalie del libretto, e sorvola pertanto sul fatto che già al tempo della scrittura quelle didascalie non erano prese alla lettera, o che la censura poteva pretendere che un’azione fosse spostata da Stoccolma a Boston, quella parte si è dimostrata insoddisfatta della regia e ha buato Michieletto. Non è un fatto nuovo. Il teatro moderno stenta a incontrare, soprattutto in Italia, i gusti del pubblico di melomani testardi e fedeli. Ciò che ormai nel teatro cosiddetto di prosa appare accettato, anzi addirittura indiscusso, e perfino richiesto – si pensi al successo mondiale dell’Amleto messo in scena al Barbican e trasmesso in tutti i cinema, anche in Italia, da Benedict Cumberbatch – turba invece ancora il pubblico del melodramma. Anche qui, però, si nota, e non solo all’Opera di Roma, un pubblico nuovo, soprattutto di giovani, quelli magari che il nuovo teatro, il nuovo cinema lo vedono, e lo pretendono, che quando va all’opera lo capiscono, lo apprezzano, e lo applaudono. Del resto, fin dalle sue origini, quando era probabilmente solo un ditirambo cantato e recitato da un coro, il teatro è sempre stato teatro contemporaneo: il mito ritualmente si realizzava nella danza dei coreuti. Poi venne l’attore, un coreuta che si stacca dal coro, e in abiti dell’oggi prende a recitare le storie senza tempo del mito. Non sarà diverso per il pubblico della Roma repubblicana e dei Cesari, vedere una Medea di Ovidio, non sarà diverso davanti alle cattedrali nel Medioevo guardare una sacra rappresentazione, o tra le tavole del Globe a Londra, assistere a un play di Webster o di Shakespeare, o nei corrales spagnoli, dove prendono vita le commedie di Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca, fino ai teatri italiani, francesi e moderni: il pubblico si riconoscerà sempre nei gesti, nelle parole, nel canto di chi sulla scena si fa specchio di chi guarda in platea e nelle balconate quanto sulla scena si agita e si muove e che sembra riprodurre la sua vita. E, riproducendola, la critica, la giudica, magari addirittura la condanna; perché, se no, desterebbe scandalo la rappresentazione del Tartufo di Molière? o la condotta libertina di Violetta, di Carmen, di Lulu, di Katerina Izmailova?

Lohengrin

di Richard Wagner

Direttore  Michele Mariotti

Regia  Damiano Michieletto

Maestro del Coro Ciro Visco 

Scene Paolo Fantin           

Costumi  Carla Teti                              

Luci Alessandro Carletti               

Drammaturgo Mattia Palma

Heinrich der Vogler Clive Bayley

Lohengrin Dmitry Korchak

Elsa von Brabant Jennifer Holloway

Friedrich von Telramund  Tómas Tómasson

Ortrud  Ekaterina Gubanova

Der Heerrufer des Königs Andrei Bondarenko

Vier Brabantische Edle Alejo Álvarez Castillo *, Dayu Xu *, Guangwei Yao *, Jiacheng Fan *

Vier Edelknaben Mariko Iizuka, Cristina Tarantino, Silvia Pasini, Caterina D’Angelo

 

*dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma                                                                      

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia e Teatro La Fenice di Venezia

Prima rappresentazione: 27 novembre 2015

Repliche: 30 novembre, 2, 5, 7 dicembre 2025

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