90 anni fa nasceva un’autentica rivoluzionaria: Margaret Thatcher

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13 Ottobre 2015

*A due anni dalla morte, vorrei provare a ricordare la figura storica di Margaret Thatcher, i suoi meriti e demeriti, la sua legacy, cioè l’eredità culturale, politica, economica.

Margaret Hilda Roberts è stata una dei più grandi statisti del 900 e, dopo Churchill, la più eminente leader del partito conservatore inglese.

La rivoluzione thatcheriana – perché di rivoluzione si trattò – le è valsa l’attribuzione del termine thatcherismo, termine che sta a indicare il piglio decisionista, le dottrine economiche monetariste e neoliberiste basate sui tagli alla spesa pubblica e alle tasse e le politiche pubbliche a sostegno dell’offerta; e anche una certa dose di populismo: voleva apparire come una del popolo, la massaia figlia del droghiere, e come tale fu percepita.

Una figura estranea alle consuetudini della politica politicante inglese che si appellava direttamente all’opinione pubblica. Il compianto Paolo Filo Della Torre, che su di lei ha scritto pagine memorabili, notava come il suo fosse “un linguaggio spicciolo, molto elementare, ben comprensibile alle masse, facilmente traducibile, anche visivamente, dalla stampa popolare”.

L’Inghilterra di fine anni ‘70 era definito il malato d’Europa, attraversava un progressivo declassamento del proprio prestigio e ruolo internazionale, la produttività era la più bassa d’Europa: i sindacati spadroneggiavano nella vita del paese, con il potere soverchio di condizionare e tenere in scacco i governi fossero di matrice laburista oppure conservatrice.

In 11 anni di governo Thatcher l’avrebbe trasformata nella locomotiva d’Europa: rivoluzionò il Regno Unito diffondendo il verbo dell’efficienza e della competitività nel segno di un’ideologia, il neoliberismo, che propugnava il ridimensionamento del peso dello stato nell’economia e nella società, a favore di un ruolo più attivo dell’individuo. Con lei e Reagan tale dottrina economica divenne l’ideologia preminente negli anni ’80.

Thatcher fu la prima e unica donna inglese a scalare i vertici del potere, da sempre appannaggio maschile, il premier che ha governato più a lungo nella storia del paese. Per consentirle un’ascesa sfolgorante, fu determinante la combinazione di due fattori: una determinazione ferrea e un’incredibile fortuna.

Da parte sua, quella dote che solo i più grandi leader politici possiedono che è l’abilità a volgere ogni occasione a proprio vantaggio.

Peter Clarke ha scritto che La lady di ferro era «un’opportunista politica nel senso migliore del termine: sempre pronta ad afferrare le opportunità che apparivano nel suo cammino e a sfruttarle».

Figlia di un droghiere di Grantham, due lauree (in chimica – a Oxford – e in legge), sposata con un facoltoso imprenditore, Denis Thatcher, con cui avrà due figli, dopo un primo tentativo fallito, nel 58 decide di intraprendere la carriera politica: secondo la ricostruzione di Filo della Torre, per un anno frequenta assiduamente il suo collegio, bussa alle porte dicendo: “Sono Margaret Thatcher, la vostra candidata, ditemi quali sono i vostri problemi. Ditemi come posso aiutarvi”.

Anthony Eden la nota e la nomina sottosegretario alla previdenza sociale. Dimostra un’abnegazione assoluta alla causa, lavorando giorno e notte (addirittura una volta ebbe uno svenimento per il troppo lavoro).

Entrata nel Governo Heath come simbolica presenza femminile, emerse come un formidabile ministro dell’istruzione, riuscendo a sfruttare in proprio favore la sconfitta del suo premier alle elezioni politiche; audacemente si candida alla guida dei tory contro lo stesso Heath e inopinatamente ne diviene  leader (siamo nel ‘75). Harold Wilson, all’epoca primo ministro laburista – riferisce Filo Della Torre – “si rallegrò”.”A suo parere, i laburisti avrebbero potuto dormire tra due guanciali fino a che i tory fossero stati sotto la guida di una donna tanto inesperta”. Avrebbe avuto probabilmente ragione, se non fosse intervenuto  a mutare il clima politico “l’inverno dello scontento”, costellato da continui scioperi e agitazioni promossi dai sindacati.

L’immagine delle montagne di rifiuti non raccolti nelle strade, i morti che non venivano sepolti per giorni e giorni furono episodi che non vennero dimenticati dai cittadini. Callaghan, il Premier il cui manifesto programmatico era fondato proprio sull’alleanza coi sindacati, veniva sconfitto dalle potentissime trade unions in rivolta contro il governo laburista. Thatcher nel 79 vince le elezioni con ampio margine, con un programma di governo marcatamente liberista: “salari più alti e prezzi sotto controllo, inflazione in discesa, meno governo, meno tasse”.

Senza voler sminuire i suoi meriti, ancora una volta gioca un ruolo decisivo  la fortuna. Per Filo «la ragione per cui vince le elezioni non è tanto merito suo, quanto demerito dei laburisti, che pur di salvaguardare l’unità del partito con un sindacato molto impopolare, perdono le elezioni».

La fortuna le arride anche in un momento di forte calo di popolarità, durante il primo mandato, quando l’Argentina invade le isole Falkland.

Non hanno nessun valore strategico o economico, abitate da poco più di 2000 sudditi inglesi, sono brulle, buone solo per l’allevamento degli ovini, desolatamente lontane (8000 miglia da Londra).

Ma lei lo considera un sopruso intollerabile: dichiara guerra e la vince, infliggendo alla giunta dittatoriale del Generale Galtieri un’umiliante e rovinosa sconfitta. Nonostante gli errori iniziali, l’operazione militare fu portata a termine con efficienza e con un numero di vittime relativamente contenuto. La Thatcher assurgeva al rango di eroe nazionale, con un insperato colpo di fortuna che faceva dimenticare i risultati estremamente negativi della sua prima legislatura (aumento record del numero dei disoccupati, della spesa pubblica, le tasse non erano diminuite, i prezzi non erano calati). La stampa le affibbiò da allora in poi il nomignolo TINA, cioè le iniziali del suo motto (“there is no alternative”).

La vittoria suscitò un clima di euforia collettiva e di orgoglio patriottico ed ebbe un effetto psicologico poderoso sulla nazione inglese: arrestò la convinzione che il declino fosse un destino ineluttabile e confermò l’immagine di una leader intransigente, disposta a tutto pur perseguire i propri obbiettivi. Era finalmente possibile, grazie a Thatcher, invertire quella tendenza al declino che aveva investito la Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale.

Memorabile fu anche la vittoria conseguita contro il pugnace sindacato dei minatori di Arthur Scargill, in sciopero contro il piano di ristrutturazione dell’ industria mineraria. Lo sciopero era formalmente illegale perché Scargill “si era rifiutato di tenere la votazione nazionale che sarebbe stata necessaria in questo caso”.

Durò un anno; più giornate di lavoro andarono perse che in qualsiasi vertenza dal 1926.

Lei si dimostrò inflessibile, rifiutando ogni possibilità di accordo. E Scargill rimase fermo sulle sue posizioni.

Lo sciopero si spense lentamente e il movimento fu scalfito. Per il governo significò subire un brusco arresto della ripresa economica; ma il prezzo più alto lo pagarono le famiglie dei lavoratori in sciopero (fecero impressione i metodi brutali utilizzati dalla polizia, con il placet del Governo). Oggi sappiamo inoltre che Thatcher prese in considerazione l’idea di intervenire con l’esercito per stroncare lo sciopero.

La battaglia combattuta strenuamente e definitivamente vinta contro il sindacato ebbe un duplice risvolto: da una parte ne limitò il potere di interdizione, li responsabilizzò (employment act), ottenendo in tal modo un drastico calo delle ore di sciopero e quindi un considerevole aumento della produttività; ma soprattutto sradicò la convinzione che il Regno Unito si potesse guidare solo previo consenso dei sindacati.

Durante gli anni della Thatcher riprese vigore l’azione terroristica dell’IRA (Irish Republican army). A Brighton, dove si trovava per un incontro di partito, Thatcher nell’ottobre 1984 subì un attentato al quale scampò miracolosamente. Il giorno dopo dette dimostrazione di grande forza d’animo insistendo per continuare i lavori e  tenendo, con atteggiamento imperturbabile, un discorso molto coraggioso. L’immagine di lady di Ferro le era stata appioppata con valide ragioni.

In politica estera, l’epoca della Thatcher fu segnata dalla caduta dei comunismi, dallo stretto sodalizio con Reagan che fu un alleato autentico, con il quale si instaurò un rapporto di piena sintonia  (Thatcher avallerà la strategia americana delle guerre stellari). Diversi furono gli errori in questo ambito.

Manifestò simpatie per Pinochet, definì Mandela un terrorista.

Non fu la poll tax – come si sente spesso ripetere – la ragione per cui cadde; lo fu il suo atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea. Nonostante fosse stata una sostenitrice del sì al referendum del ‘75 sulla permanenza britannica nella comunità Europea, divenne sempre più diffidente e la diffidenza sfociò entro breve in un’ostinata opposizione al progetto di integrazione europea.

Le sue posizioni anti-europeiste le costeranno la perdita della leadership del partito e della guida del governo. Aveva ormai perso completamente il contatto con la realtà ed era considerata dal suo partito imbarazzante e troppo impopolare. Si trattò di una vera e propria congiura di palazzo ordita dai Tory, analoga a quella che le aveva permesso la conquista del partito ai danni di Heat.

Uscì di scena non prima di aver conseguito un’ultima vittoria: decretare il suo successore. Impose un suo fidato collaboratore, John Major, al posto del cospiratore Heseltine. Scrive Peter Clarke: “così nel novembre 1990, il partito conservatore, colpito e attonito al pensiero di quel che aveva contribuito a far accadere, diede il suo saluto finale alla Thatcher, con alcuni sensi di colpa per il fatto che i suoi undici anni e mezzo come Primo Ministro dovessero finire così”.

 

Tra i lasciti più importanti della sua stagione di governo, ed è ciò per cui è maggiormente ricordata (e celebrata), ci sono le sue ricette economiche.

Alla base della sua concezione economica vi è una profonda componente etica, quella dell’individuo come soggetto libero e responsabile. Tale visione del mondo, che si traduce in un individualismo esasperato («non esiste la società; esistono gli individui») – anche se è sbagliato considerare il suo individualismo come grettamente utilitarista -, era fondata sul ruolo decisivo dell’individuo nello sviluppo economico. In questa logica, era per lei un obbiettivo dirimente incoraggiare l’iniziativa individuale e nel contempo scoraggiare la dipendenza dallo Stato, combattendo l’assistenzialismo (favorito dai governi laburisti e causa del declino economico inglese).

Dal punto di vista morale non era fautrice del laissez-faire, inteso come licenza di fare ciò che si vuole, ma piuttosto di un ritorno ai valori vittoriani. Per dirla con Francesco Forte, nella visione della Thatcher “assistenzialismo statale e permissivismo etico sono due facce della stessa medaglia”.

L’intuizione, banale ma ancora oggi attuale, è che per redistribuire la ricchezza, occorre prima crearla. Le politiche economiche della Thatcher (e di Reagan) si basavano sul presupposto, fallace, della trickle down economy (in italiano detto effetto sgocciolamento”): se i ricchi beneficiano di una tassazione più lieve, l’effetto che si produce è quello di creare ricchezza e benessere per tutti, comprese le classi sociali più derelitte.

Mise mano al sistema fiscale, aumentando la tassazione indiretta e riducendo quella diretta. Si trattò di scelte economiche fortemente sperequative: i ricchi divennero molto più ricchi; i poveri relativamente più poveri.

In questo senso si inquadra la poll tax, un’imposta locale sugli immobili che prevedeva un contributo uguale per tutti. Il fatto che i soli a guadagnarci vistosamente fossero ancora una volta i più abbienti suscitò un’autentica reazione di sdegno e risentimento nella popolazione.

Se l’imposta di capitazione fu percepita come assolutamente ingiusta e iniqua, era però perfettamente coerente con il principio thacheriano che vedeva l’efficienza e la competitività come valori superiori all’equità e all’eguaglianza. Fu però un errore politico clamoroso che contribuì, in un momento difficile della sua carriera, a comprometterne l’immagine e la popolarità presso il suo popolo.

Nel suo libro La politica economica di Margaret Thatcher Cosimo Magazzino ha così efficacemente riassunto l’azione economica dei suoi governi: «politiche fiscali improntate al rigore attraverso la riduzione della spesa pubblica, con tagli ai suoi capitoli tendenzialmente improduttivi; il ridimensionamento del potere delle Trade Union; l’incoraggiamento alle forze di mercato ad agire il più liberamente e flessibilmente possibile; politiche della concorrenza e delle privatizzazioni; politiche di deregulation e semplificazione burocratica; infine l’arretramento dell’intervento pubblico in materia di politica industriale».

Il programma di privatizzazione divenne la politica più dinamica del premierato della Thatcher e quella a cui il suo nome venne associato in tutto il mondo.

Le privatizzazioni sono la parte più sostanziosa di ciò che è rimasto in concreto della sua eredità. Per dirla con Magazzino, «le imprese privatizzate sono oggi (con l’eccezione del settore automobilistico) molto efficienti e di rilevanti dimensioni».

Le dismissioni riguardarono il settore automobilistico, energetico, siderurgico, aereo e aereonautico, telefonico, le compagnie di trasporto ferroviario.

Il risultato fu di ridurre di oltre la metà la quota delle aziende pubbliche nell’economia, di diminuire il numero di occupati del settore pubblico dell’economia da 8 a 3 milioni di unità. Si crearono così oltre 9 milioni di piccoli risparmiatori e azionisti.

I dati economici dell’era thatcher sono strabilianti e ci forniscono un quadro molto positivo della sua azione al governo: il debito pubblico passò dal 54% al 34,9, il tasso di inflazione dal 18 al 5,8.

Sotto i suoi governi calò drasticamente il totale della spesa pubblica su Pil (dal 43,1% al 39,7%, cioè 8 punti percentuali in meno della media europea) e aumentò la produttività del lavoro, il Pil crebbe mediamente del 2,7% contro l’1% del precedente decennio, superando abbondantemente nello stesso periodo quello americano (1%), tedesco (1,9%), francese (2,2%). La pressione fiscale era pari al termine del suo premierato soltanto al 36,75% del Pil rispetto a una media europea del 40,76%.

Anche il tasso di disoccupazione, quando fu spodestata, era il più basso tra le maggiori economie della comunità europea (6,2%). Il tasso di inflazione, come detto, fu più che dimezzato (facendo meglio sia di quanto fatto dai predecessori che dagli altri paesi ad economia avanzata). Fa notare un grande storico come Ennio Di Nolfo che “le spese sociali in Gran Bretagna non sono nel complesso diminuite, ma sono solo amministrate in maniera diversa”. Questo per puntualizzare che la vulgata della sinistra per cui Thatcher smantellò il welfare state del Regno Unito è infondata.

I limiti della sua politica economica sono ravvisabili nel fatto che «le privatizzazioni precedettero le liberalizzazioni», che poca fu l’attenzione riservata alla ricerca e allo sviluppo e nell’aumento imponente delle disuguaglianze sociali.

Mai prima di allora si era assistito nella storia inglese a un ripudio così esplicito del keynesianesimo (o meglio della tralignazione di tale dottrina).

Per questo la sinistra (compresa quella laburista) la disprezzava in modo così viscerale e seguita ancora oggi a demonizzarla.

Il partito che la destituì la rimpianse a lungo. Quando si succedettero i governi laburisti dal 1996 al 2007, i conservatori cercheranno a lungo una nuova Thatcher, un politico capace di esprimere una leadership forte, energica, indomita come quella impersonata da “the iron lady” (come venne battezzata da un giornale sovietico). Blair venne considerato all’inizio l’erede politico della Thatcher (senza esserne minimamente all’altezza) e cercò esplicitamente di interpretare un “thatcherismo dal volto umano”, cioè un’ideologia che mitigasse le asprezze di quella concezione economico – sociale nella consapevolezza che quella era l’unica politica possibile per far crescere l’econocomia. Ma i risultati dell’era Blair furono alquanto deludenti.

L’influenza del thacherismo sul labour è tale che ne muterà l’identità politica: abbandoneranno l’armamentario ideologico del passato fatto di politiche filo-keynesiane per virare verso il liberalismo: il New Labour rimase tuttavia un esperimento controverso e incompiuto (come dimostra l’attualità).

Mai nessuno ha diviso la Gran Bretagna come lei negli ultimi 30 anni: come tutte le grandi personalità il suo destino era di essere odiata o ammirata, tertium non datur.

Ha avuto l’indubbio merito di imprimere una svolta radicale al paese e si è battuta tenacemente e con grande coerenza per realizzare le sue idee.

Rifiutando i compromessi cui erano soliti i suoi predecessori, ha risollevato e reso più prospera una nazione decadente, sfiduciata.

Agli storici spetterà il giudizio definitivo (la riabilitazione?) su questo personaggio politico così discusso, che lascia un ricordo indelebile di sé e che continua ad affascinare, dividere, ispirare. Una figura oggi imprescindibile per qualunque destra moderna.

 

* Pubblicato originariamente sul blog liberale “Gli Immoderati”.

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CAT: Storia

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