La tirannide dell’io e l’abolizione del futuro

26 Giugno 2022

Con Tirannide dell’io lo storico Enzo Traverso propone un’indagine sulla crescita del soggettivismo e dell’uso dell’io” della scrittura della storia. Un processo che non solo per la quantità e l’estensione del fenomeno, ma anche per la sua diffusione segna una metamorfosi della scrittura storica in età contemporanea.

Senza compiacenze, ma anche senza acrimonia, Traverso sottolinea l’interesse, ma anche i limiti in una riflessione serrata sui confini che separano, ma anche si abbassano tra storiografia e letteratura.  Il suo sguardo critico, curioso, è volto soprattutto a definire uno degli effetti a suo avviso preoccupanti di questa nuova crescita del narcisismo degli storici: la perdita del senso collettivo della storia. Questo, a suo avviso, è il sintomo della trasformazione più profonda che si origina da questa centralità dell’«io». Da qui la scelta anche del titolo nella versione italiana  – appunto la Tirannide dell’io  – rispetto al titolo originario nella versione francese uscita nel 2020: Passés singuliers.

Ci sono vari aspetti che Traverso sottolinea in una riflessione mossa dalla curiosità, dalla voglia di capire, ma anche attraversata da preoccupazione e incertezze. Comunque da perplessità. Qui ne voglio indicare essenzialmente due che partono dai percorsi della produzione storiografica.

Primo punto

La storia si scrive sempre più attraverso la soggettività dell’autore. Significa che il processo di scavo ritiene che tanto l’ambito di indagine – rivelare o far emergere l’interiorità di chi la fa, si incontra con uno scavo identico anche da parte di chi la scrive. L’effetto è una scrittura storica – meglio una ricostruzione della scena – che non produce più storia nel senso convenzionale del termine, ma neppure autobiografia. Emerge una narrazione in cui i confini tra romanzo e storia si assottigliano, in cui ciò che risalta è la prima persona.

In breve né l’obiettività distaccata né l’impersonalità sarebbero oggi il fondamento della scrittura del passato. Javier Cercas (Soldati di Salamina), Emmanuel Carrère (Limonov), Daniel Mendelsohn (Gli scomparsi), Jonathan Littell (Le benevole) sono le esperienze di scrittura che con maggior efficacia rappresentano questo passaggio e questo nuovo modo di intendere e ricostruire la scena del passato.

Il codice narrativo e il modello canonico, osserva Traverso, è rappresentato da Winfried Georg Sebald  (Austerlitz; Gli emigrati, Gli anelli di Saturno, in Italia editi da Adelphi) i cui ingredienti – scrive Traverso – sono: «onnipresenza della memoria, lutto e malinconia, coinvolgimento diretto dell’autore nei suoi racconti, indagine  come dispositivo narrativo e uso ricorrente dei materiali d’archivio, in particolare fotografici,  inseriti nel testo non come illustrazioni decorative ma come elementi cruciali  che danno un ritmo e creano moment di sospensione  in cui il passato appare, statico, immobile» [p. 102].

Il primo punto, dunque, riguarda la questione della verità laddove il tema della centralità dell’Io propone domande sul rapporto tra verità storica e verità romanzesca, sul passato ricostruito non sulla base dei fatti ma del filtro dell’interiorità – e dunque del “vissuto”, ma anche dell’Immaginato, che si accreditano come la storia «è andata per davvero». Un codice narrativo, che Roberto Faenza  propone nel suo Hill of Vision, a dimostrazione che quel tema su cui Traverso invita a riflettere non riguarda solo un pubblico ristretto di lettori di libri di storia, ma il modo stesso in cui si propone «storia» per il «consumatore/fruitore di storie», su molti supporti, non solo libri.

Secondo punto

Traverso individua una genealogia storiografica che presume non solo alcuni testi in cui storia e romanzo di sovrappongono, ma che discute di come in storiografia sono state proposte innovazioni a partire dalla seconda metà degli anni ’70 e soprattutto negli anni ’80. In particolare il riferimento è a Pierre Nora e alla categoria di «ego-histoire» (inizialmente si chiama «auto-histoire») su cui Nora inizia a lavorare nel 1982 per poi proporre un primo schema con il volume Essais d’ego-histoire (Gallimard 1987) che descrive come “un nuovo genere  per una nuova età della coscienza storica e che nasce dall’incrocio di due grandi movimenti: da una parte l’incertezza dei principi classici dell’obbiettività storica; dall’altra l’investimento sul presente dello sguardo dello storico”.

È l’inizio di quel percorso culturale che François Hartog ha proposto di chiamare «presentismo» ovvero  la considerazione del passato in vista del presente, ma dove  soprattutto, precisa Hartog quello che si accredita è un “presente perpetuo”, dove «tutto avviene come se non ci fosse che il presente, sorta di vasta estensione d’acqua che agita un incessante sciabordio».

Una condizione che fa dire a Traverso che la nostra epoca è incapace di proiettarsi verso il futuro e dunque di pensarlo. E questo perché pensare futuro discende dall’avere una idea di progresso, di trasformazione. Ossia avere un progetto di futuro vissuto e pensato come trasformazione del presente e non come restaurazione di passato.

Non solo. Per questo la prevalenza dell’Io non può che avvenire attraversi le regole di scrittura della narrativa e la produzione storica ha successo proprio in conseguenza di questa scrittura che gode delle simpatie di un pubblico di lettori costruito su questa sensibilità. Il che dà agli storici che lo adottano un successo meritato, indubbiamente, ma anche non votato a risolvere, bensì alla fine a «consolare».

 

Per concludere

Prevale una riflessione sul futuro in cui scompare l’idea di impegno collettivo e si fa sempre più imprecisa la ricerca di una polifonia di cui il progetto di futuro è anche il prodotto costantemente da mettere a verifica, da ripensare, proprio perché mosso e fondato su un processo di compromesso e di mediazione con altri. Senza pensare che ritrovare comunità significhi avere nostalgia del passato o della propria comunità di appartenenza o di discendenza violentate dalla storia (per esempio nei processi di persecuzione, sterminio o di memoria dei sopravvissuti che dopo provano a ricominciare). Ritrovare comunità significa invece fondare progetti polifonici, produrre sintesi tra sensibilità e immaginari diversi, promuovere loro coabitazione.

Per questo il tema da superare non è solo la prima persona o il paradigma di pensare in prima persona, ma trovare una funzione che dall’«io» passi al «noi», sapendo che quel progetto deve fare i conti anche con le sue sconfitte e con le sue crisi come ha richiamato Yasha Mounk, con Popolo VS Democrazia e ora con Il Grande esperimento.

La scelta del titolo della versione italiana, più politica della versione originaria, indica un terreno di riflessione che non può essere solo risolto sul piano del metodo. Scrivere di storia è un atto politico.

TAG: Daniel Mendelsohn, Emmanuel Carrère, Enzo Traverso, François Hartog, Javier Cercas, Jonathan LIttell, Laterza Editore, Pierre Nora, Roberto Faenza, Winfried Georg Sebald, Yasha Mounk
CAT: Storia

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