Giuseppe Manfridi tra jazz e drammaturgia

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16 Novembre 2016

Con il consueto garbo, cui corrisponde altrettanta determinazione, Giuseppe Manfridi – autore, regista, attore – ha in qualche modo segnato l’apertura della stagione teatrale romana. Prima come interprete, nel cast di Americani, versione italiana di Glengarry Glen Close, di David Mamet, con la regia di Sergio Rubini. Poi come attore di se stesso, ovvero nella ripresa, a venti anni di distanza di quel Ti amo Maria che è stato, ed è, uno dei suoi testi più celebrati. La commedia, infatti, che vide il suo debutto nel ’90 per la regia di Marco Sciaccaluga, con Carlo Delle Piane e Anna Bonaiuto, è tornata in scena al Teatro Lo Spazio, per pochi giorni,  in una versione “jazz”, con Nelly Jensen, Marcello Micci e Pierfrancesco Cacace al sax e l’autore a vestire i panni del protagonista.

Giuseppe Manfridi, classe 1956, ha girato il mondo, ma il suo centro resta sempre Roma: alla città (e alla squadra) ha dedicato negli anni tempo e attenzione. Autore di testi considerati ormai “classici del contemporaneo” – come Teppisti, Giacomo il prepotente, La cena, Ultrà, Zozos, L. Cenci, La riserva, Il fazzoletto di Dostoevskij, e molti altri – Manfridi però si è divertito, e non lo nasconde, a stare in scena: naturale allora partire da qui per una chiacchierata che spazia dalla scrittura all’interpretazione.

Vuole far l’attore?

« Se fai qualsiasi cosa che ha a che fare con il teatro, che non sia recitare, è perché all’origine vuoi recitare. Voglio usare una metafora calcistica, di quelle a me consuete: è lo stesso che accade all’allenatore di calcio. Puoi pure allenare, ma all’inizio volevi giocare. Il mio scrivere per il teatro, l’aver fatto anche delle regie è una conseguenza dei miei sogni dell’adolescenza: ossia recitare, stare su un palco e fare Amleto. Chi è maschietto, e vuole fare l’attore sogna di interpretare Amleto. Poi tutto si apre, si diffonde, e l’eterogeneità delle funzioni teatrali fa sì che poi ci si possa indirizzare verso la scrittura drammaturgica o di scena e dunque fare altro. Ma io mi sento a casa, se ci riferiamo ai desideri primari come a una nostra identità. Dunque grazie a Luca Barbareschi che mi ha chiamato al Teatro Eliseo nel bellissimo cast di Americani poi grazie agli amici compagni di scena per Ti Amo Maria (in Jazz)».

Che effetto fa riportare alla luce un testo scritto nel 1989?

«Un testo nato per Carlo Delle Piane, che andò in scena con la regia di Marco Sciaccaluga. Qui a roma l’abbiamo intitolato Ti amo Maria (in jazz) anche perché quel lavoro era stato pensato grazie a un grande jazzista, scomparso due anni fa, Renato Sellani. Quando, una volta, gli dissi “bravo”, mi rispose “bravo nelle cose inutili”. E questo è il destino di molti jazzisti: spandere capolavori musicali per pochi, pochissimi».

E forse è anche la funzione del teatro, spargere cose inutili per pochi?

«Direi di no. Il teatro ci consente anche uditòri importanti. Il jazzista è colui che, pur potendo suonare per molti, fa invece una scelta severa: Dexter Gordon, il sassofonista meraviglioso del film Round Midnight, suona pezzi straordinari di fronte a dieci spettatori al massimo. Anche il teatro può scegliere la marginalità o spazi sperimentali, ma può anche essere altro. Per quel che mi riguarda, ho scelto di tornare a quel teatro con cui avevo cominciato, quello delle “cantine” degli anni Settanta, quando Roma era più che Parigi ed esprimeva una vitalità underground impressionante, frequentata dal Living Theatre o da Carmelo Bene. Abbiamo cercato, dunque, di recuperare l’idea del jazz, che è comunque interna alla commedia. Ti amo Maria racconta infatti di un musicista alla deriva, che pensa di aver sbagliato strumento e opera una sorta di stalking nei confronti di una donna con cui aveva avuto una breve storia anni prima. Compare sul pianerottolo di casa: dunque uno spazio neutro, morto, inerte. E lì si piazza imponendo alla donna una vita clandestina, che lei è costretta ad accettare perché in fondo non lo rifiuta del tutto. Ecco, c’è del jazz nella commedia, e quel jazz l’abbiamo trasmesso anche a un’altra forma di creatività che ha animato la seconda metà del Novecento, ovvero la poesia della Beat Generation. Così, dunque nelle serate fatte al Teatro Lo Spazio, dopo lo spettacolo, abbiamo proposto un film di Matteo Scarfò dedicato al poeta Gregory Corso».

Una contaminazione di generi, linguaggi, stili, che oggi sembra ancora più contemporanea, più urgente, necessaria…

«Sento il bisogno di febbre, di fervore: potrebbero sembrare parole promozionali, ma è così. Sono una creatura trapiantata in una patria non sua, che è quella della realtà virtuale. Quelli della mia generazione non sono nati nella virtualità della Rete, non parlano quel linguaggio, mentre per i nostri figli è lingua madre. Per me, la lingua è ancora quella della carta, della comunicazione da persona a persona. Magari legata ancora al telefono a disco, che quando rispondi non sai chi è e vivi quel momento magico in cui speri che sia la donna attesa o la grande opportunità oppure temi sia il creditore. Devi, comunque, sentire la voce, devi avere il contatto umano. Da qui, una rinnovata idea di “umanesimo”. Le nostre serate, tra jazz, teatro e poesia, sono state di umanesimo. Certo understatement: però eravamo lì, assieme, e chi leggeva mandava la voce nelle orecchie di chi ascolta. Abbiamo ascoltato e rivissuto la storia di Gregoy Corso, che scelse di morire qui a Roma, interpretato nel film da Nick Mancuso, uno strepitoso attore che si chiama, cui si affianca Elisabetta Pozzi. È il racconto di un poeta che è stato parte di questa città, che abbiamo accolto e che lui ha scelto. Un Rimbaud del nostro secolo. E abbiamo voluto coniugatreo queste “urla d’amore”: quelle del mio personaggio e quelle di Gregory Corso».

Ha evocato la Roma teatrale degli anni Settanta: il suo sguardo è sempre stato attento ai cambiamenti di questa città. Cosa è Roma oggi?

«Da qualche giorno mi sono fissato con un’idea. Roma è raccontata dai manifesti che esibisce. Anni fa frequentavo con intensità Parigi: arrivando, prendevo il taxi o la metropolitana per andare nella casa dove vivevo, e già nel tragitto sapevo cosa la città poteva offrirmi, ossia mostre, spettacoli, incontri culturali e, ovviamente, le abituali sollecitazioni commerciali. Proviamo a fare la stessa cosa a Roma: cosa ci raccontano i manifesti? Cosa ci suggeriscono? Cosa ci dà questa città? So che abbiamo una mostra di Hopper, e poi? Che altro sappiamo? È la mia città, la amo. Ma già venti anni fa il protagonista di Ti amo Maria diceva: “in questa città non si può lavorare, non vale nemmeno la pena di provarci, sembra fatta apposta per spezzarti le gambe”. Pensiamo anche a queste bufere attorno alla figura del sindaco che se n’è andato, all’interregno che abbiamo attraversato, alla sindaca che è arrivata: non entro nel merito, dico solo che sono esagerate, e si giustificano forse solo perché la città soffre e per questo dà ormai poco o nulla. Questo ce lo dicono anche i manifesti: ci dicono quali telefonini dobbiamo comprare, quale servizio di pulizia dobbiamo chiamare, ma niente altro. Se andassi a New York la città mi racconterebbe di Ian Mckellen che fa No Man’s Land di Pinter…».

Il teatro può reagire? Può cambiare le cose?

«Posso dire, con un po’ di vanità, e penso di parlare anche per i miei compagni di impresa, che dovremmo essere tutti un po’ più scorretti, pensare meno a esibire cose “ben fatte”, e azzardare dinamicità diverse di voci e espressioni. Pensare al qui e all’adesso, al palcoscenico, alla persona che ci sta davanti, per parlare e ascoltare, creando una vera dialettica. Credo che un po’ di temerarietà individuale servirebbe».

Manfridi, Jensen e Micci in Ti amo Maria (in jazz)

Manfridi, Jensen e Micci in Ti amo Maria (in jazz)

Che ne pensa della nostra drammaturgia? Riesce a raccontare il nostro tempo?

«La drammaturgia si sforza di farlo, questo è sicuro, a meno che non voglia rifugiarsi nell’estetica di una identità che sia pura apparenza. Esiste, infatti, una drammaturgia di apparenza, che non racconta nulla ma solo apparentemente dice. Ti amo Maria è una commedia scritta tanti anni fa, quando ancora non si usava il termine stalking. Dunque a quel personaggio oggi riconosciamo la natura dello stalker. Il linguaggio fa le cose, al punto che la mia Maria di allora, se oppressa dalla stessa molestia oggi, poiché consapevole dello stalking, agirebbe in modo diverso. In quegli anni, invece, non c’era ancora consapevolezza e la distanza di tempo ci permette dei confronti, di misurare diversamente le cose… Sono reduce dall’allestimento di Americani, il testo di Mamet – il titolo originale è Glengarry Glen Rose – che nell’84 ha raccontato quello che sarebbe avvenuto nel 2008: ovvero i venditori di fuffa, gli agenti immobiliari che vendono il nulla. Mamet parlava esattamente di ciò da cui è provenuta la catastrofe economica che ancora ci travolge: c’era una grande forza profetica in quel testo, basato su una drammaturgia che fa della spezzatura sincopata delle battute la sua forza estetica. Ed è stato affascinante ascoltare poi lo stesso Mamet, quando è venuto a Roma, parlare di metrica, di versi alessandrini e pentapodia. Però, al tempo stesso, i suoi testi mordono la realtà, la concretezza. Vedo, dunque, che tanta drammaturgia contemporanea si sforza di riprendere racconti che siano nelle nostre carni, anzi siano le nostre carni. Poi, è chiaro che, finché l’umanità è questa, raccontare la conflittualità uomo-donna, oppure amante-amante, ci fa scivolare in un eterna attualità: qualcosa che continuiamo in modo inesausto a raccontare, con varianti possibili, dalle origini fino a Strindberg, Albee o Pinter. Ma voglio aggiungere una cosa…».

Prego…

«Riprendere una commedia scritta negli anni Ottanta potrebbe porre dei problemi: che so, cambiamo le lire in euro? Ma non è quello il nodo: credo infatti che ogni commedia debba essere “ritratto” e “fotografia” al tempo stesso. Il ritratto deve cogliere la perennità del volto raffigurato, la fotografia coglie quelle bellurie laterali, i dettagli che un istante dopo non saranno più. Credo che il teatro debba, anche nelle sue commedie più datate, tramandare la polvere di quei momenti, al di là della potenza imperitura dei personaggi – quando tali sono».

Esempi non mancano…

«Certo. Shakespeare ha inserito nelle sue commedie elementi che avranno fatto ridere gli spettatori di quell’anno! Non del periodo elisabettiano in generale, ma di quel preciso momento, magari legato a un fatto contingente».

E dunque cosa è cambiato dal Ti amo Maria di allora a quello di oggi nel suo modo di scrivere?

«È cambiato tutto mille volte, ma è come se andassi sempre alla ricerca di un cambiamento precedente. Oggi, in un atto di narcisismo gigantesco, vorrei scrivere una commedia alla Ti amo Maria: sono un autore che vorrebbe ispirarsi a se stesso! Ma è qualcosa che accade, come accade spesso nella vita, perché vuol dire provare a essere come siamo stati in passato, ovvero essere più giovani. Eppure sarò sempre più anziano del mio “prima”. Allora, trentenne, scrissi quel testo per un sessantenne. E oggi che sono sessantenne interpreto il testo di un autore “giovane”. L’ho imparato a memoria, e ogni tanto mi sorprendo per qualche battuta. Oggi come scriverei quelle stesse battute? Non so, forse ci metterei dell’altro, magari una carica “sapienziale” che poi ovviamente taglierei in scena. Insomma, grazie a Dio non progrediamo mai, ma cambiamo continuamente. Siamo sempre a cercare, siamo pieni di “Itache” dentro di noi, smaniosi di tornare da qualche parte».

TAG: Anna Bonaiuto, Carlo Delle Piane, David Mamet, Elisabetta Pozzi, Giuseppe Manfridi, Gregory Corso, Luca Barbareschi, Nelly Jensen, Pierfrancesco Cacace, Roma, Teatro Eliseo, Teatro Lo Spazio, Ti amo Maria
CAT: Teatro

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