Il gioco dei mondi nel castello incantato della Centrale Fies
“Se questo mondo vi sembra in crisi, dovreste vedere tutti gli altri”.
Si potrebbe parafrasare – e quindi un po’ tradire – la celebre frase di Philip K. Dick per introdurci nella 36ma edizione del Festival Drodesera, a Dro (Tn), quest’anno intitolata World Breakers, sotto la guida forte e precisa di Barbara Boninsegna, ma anche con il contributo curatoriale di altri sguardi, in primis quello di Filippo Andreatta.
Da tempo punto di riferimento per la scena performativa più insofferente alla classificazioni, il festival conferma in pieno la sua vocazione a essere non solo un fenomenale contenitore di mondi, anche uno spazio mutante esso stesso, grazie all’incessante agglomerarsi di comunità più o meno temporanee che fa ribollire i tanti spazi dell’affascinante Centrale Fies. Comunità di artisti, di operatori, di spettatori, di sguardi, intersezione volutamente politica tra le traiettorie del fare, quasi che attraversando il lungo ponte di ferro sopra il fiume Sarca che conduce alla Centrale sia richiesto assumere un cuore mutante.
L’idea dei mondi, dicevo, dei “microcosmi fallibili fatti su misura che spesso subiscono una mutazione proprio per via della loro misurazione o documentazione”. Al di là dello straordinario potenziale che sprigiona a livello performativo, non è possibile non coglierne subito la detonante lettura politica. Perché se è vero che, come ricordano le parole del catalogo, questo continuo creare, ricreare e proteggere mondi autonomi di riferimento, veri e propri fenomeni di significazione, è una chiave di lettura sempre più eterogenea, è altrettanto vero che la protezione del piccolo o grande mondo di riferimento – e la sua inevitabile messa in crisi, turbamento dell’equilibrio, vi sta suonando qualche campanello? – è la caratteristica principale e problematica della vita comunitaria dei nostri, non semplici, giorni.
Mi tuffo così nel secondo weekend del festival, aperto dalle danze e dalle musiche dell’Alta Austria stravolte da Simon Mayer in Sons Of Sissy. Liberati dalla loro ormai convenzionale ritualità, gesti e canti folklorici sprigionano una straordinaria forza straniante, denudando (non solo fisicamente come accade a un certo punto ai quattro bravissimi performer) nella progressiva perdita di aderenza al modello, tutte le ancora complesse e irrisolte dinamiche sociali e la fragilità della concezione maschile all’interno di esse.
Un mondo nei mondi di World Breakers è stato anche quello dedicato a Helicotrema, festival curato da Blauer Hase e Giulia Morucchio, dedicato all’ascolto collettivo (da albori della radiofonia) di brani audio registrati. La sessione cui ho partecipato ha presentato brani di Oren Ambarchi, Roberto Fassone, Francesco Bertocco, Venturi&Vasilijevic e di una Caterina Rossato alle prese con Scriabin dopo anni senza avere toccato il pianoforte. Tra interventi informativi e confronti tra autori e pubblico, un’esperienza di grande valore, forse ancora da perfezionare – ne parlavamo poi con gli artisti – sotto l’aspetto narrativo/rituale e performativo.
Splendido finale di serata, con tutta la incantevole Sala Comandi a applaudire lungamente, per Francesca Pennini di CollettivO CineticO con i suoi 10 Miniballetti, eccellente ingranaggio patafisico sospeso tra disciplina e fantasia, che a partire dalle impossibili coreografie appuntate su un quaderno da bimba sprigiona una contagiosa carica poetica e ironica.
Nel parco della Centrale intanto si incrociano idee e dibattiti (si lavora anche al laboratorio Art, Data And Activism) e ci si confronta in un sempre brulicante senso di comunità che non può tenere per sé (o per un élite) questa necessità di ridefinire sguardi e prospettive. È esercizio di viaggio, di democrazia, di affettività, prima ancora che lusso culturale.
La serata seguente vedo Zvizdal dei belgi Berlin. Uso la parola “vedo” perché si tratta essenzialmente di un documentario, proiettato su un grande schermo centrale sotto il quale sono riprodotti i modelli di tre scene, di modo da consentire un’interazione tra le riprese dei dettagli dei modelli e il film. È la storia di due anziani coniugi ucraini che decidono di non abbandonare la propria fattoria dopo il disastro di Chernobyl e vivono completamente isolati per oltre venticinque anni. Una storia pazzesca, fatta di un’umanità coniugale petrosa e dolcissima, di condizioni estreme, di resistenza e addii. Il documentario è molto bello, anche se l’apparato scenico (l’interazione con i modellini) non mi è sembrata tale da spostare in modo decisivo lo sguardo.
Al CollettivO CineticO è poi affidata una performance site-specific nelle cantine delle case, La casa di pietra del fratello maggiore. Per 6 spettatori a turno, coinvolti uno alla volta in una sorta di percorso sensoriale iniziatico a metà tra Blair With Project e un film della Troma. Ancora da mettere a posto, a mio parere.
Probabilmente a chi assiste oggi a uno spettacolo di Anagoor potrebbe sembrare assurdo che solo pochi anni fa la compagnia di Castelfranco Veneto potesse essere presentata come l’esempio più fulgido di un teatro che faceva a meno della parola. Gli ultimi, meravigliosi, spettacoli, sono un trionfo della parola, della parola poetica e della parola politica, come in Socrate il Sopravvissuto / Come le foglie, che unisce il romanzo di Scurati (dove uno studente uccide tutti i membri della commissione di maturità tranne il professore di storia e filosofia) alla morte del celebra filosofo greco. Potente la messa in scena, con otto ragazze e ragazzi a tenere testa alla loquela infallibile di Marco Menegoni. È un mondo etico, un mondo in cui il rapporto tra maestro e allievo (impagabile il dialogo tra Socrate e Alcibiade), tra conoscenza e giustizia tornano prepotentemente a bruciare.
Mondi in crisi, mondi da costruire e nel cui ingranaggio andrà a posizionarsi il granello che prima o poi li deteriorerà. Che un festival come Drodesera (che prima del mio arrivo aveva anche celebrato l’interessantissimo Live Works Performance Act Awards) abbia attivato quest’anno una riflessione su queste traiettorie, in un mondo che, come i ragazzi del manifesto del festival, è in attesa di qualcuno o qualcosa che ne stravolga il precario equilibrio, mi sembra quasi un segno di indispensabilità. Umana prima ancora che sociale. Ma si sa, l’arte è per quelli che hanno tempo da perdere…
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