“Anche i partigiani però…”: il 25 Aprile serve a ricordare chi aveva ragione

24 Aprile 2021

​La storia è nota. Alle 15,52 del 23 marzo 1944, un membro del GAP romano costituito tra gli altri da Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei e Carlo Salinari, accese la miccia di un esplosivo che a via Rasella, nel cuore di Roma,uccise 35 soldati di un reparto delle forze di occupazione tedesche. In meno di 24 ore sarebbe seguita la rappresaglia che portò alla morte oltre 350 persone nelle Fosse Ardeatine alle porte di Roma (ebrei, antifascisti, militari, un sacerdote e altri), per ordine di Kesslering, con il ruolo attivo di Kappler e Priebke, del questore di Roma Caruso e il placet del ministro degli interni del governo della RSI Buffarini Guidi. ​

​Da allora non si placò la polemica che coinvolse i partigiani responsabili dell’atto di via Rasella per non essersi consegnati,risparmiando così la strage tedesca seguita – per rappresaglia – all’attentato. In realtà, come sia le indagini giudiziarie, che le ricostruzioni storiche, che anche le testimonianze di tutti gli interessati – responsabili tedeschi inclusi – attestarono, quando l’eccidio delle fosse Ardeatine fu reso noto, l’”ordine era già stato eseguito”. Cioè il massacro delle Ardeatine, l’ordine della rappresaglia e della strage, senza alcuna esitazione o attesa era stato ordinato, efficientemente e rapidamente organizzato, sistematicamente portato a termine con fucilazioni di massa e tumulazione sommaria nelle fosse di centinaia di vittime. Né è detto che i partigiani si sarebbero in ogni caso consegnati dopo la loro azione di guerra – qualora ce ne fosse stata, come invece non vi fu, la possibilità – o che questo avrebbe necessariamenterisparmiato ulteriori vittime tra la popolazione civile e militare.

​La nota vicenda di via Rasella e delle Ardeatine – studiata ad esempio nel capolavoro di storia orale e degli studi sulla memoria collettiva di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le fosse Ardeatine, la memoria (Donzelli 1999) e, sotto diversi profili, in molti altre indagini sulla Resistenza e le stragi tedesche in Italia – si ritrova ora anche nel cuore del bel libro di Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, da poco edito da Laterza nella collana “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti”, diretta da Carlo Greppi, in cui sono apparsi tra l’altro, in questi mesi, i libri di Eric Gobetti sulle foibe e di Francesco Filippi, Prima gli italiani (sì ma quali?).​

​Il libro di Colombini è infatti dedicato all’analisi e allo smontaggio storiografico di una serie di luoghi comuni consolidati sulla Resistenza, che ne hanno finito per diffondere un’immagine deformata ma largamente diffusa nel discorso pubblico e nell’opinione comune degli italiani. Il mito, ad esempio, di una Resistenza “tutta rossa”, cioè solo comunista: vi fu nella guerra di Liberazione – è vero, ricorda e ricostruisce Colombini – un ruolo politico e militare centrale delle brigate Garibaldi legate al PCI; ma dovrebbe essere ben noto che importanti furono anche la Resistenza giellista-azionista, quella socialista, quella cattolica, e infine il ruolo degli autonomi. Il problema (questo è un altro esempio dei temi su cui si sono costruiti luoghi comuni e manipolazioni nell’opinione pubblica e in giudizi anche storici di parte), dell’uso della violenza da parte dei partigiani, che – come ricostruito magistralmente fin dal 1991 dallo storico ed ex partigiano Claudio Pavone, nel suo studio ormai classico Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resitenza(Bollati Boringhieri) e qui è nuovamente esaminato da Colombini– uso della violenza che fu generalmente strumentale da parte dei partigiani.  Mentre per i fascisti la violenza costituiva un mito fondativo e un elemento identitario, nonché una pratica politicacoltivati fin dalle origini diciannovistiche, passati per lo squadrismo, prolungatisi in tutto il Ventennio e crudelmente riemersi a Salò.

​Questa questione della violenza è evidentemente centrale nel libro, come dimostra la strategica collocazione della vicenda di via Rasella e delle Fosse Ardeatine nella rievocazione di Anche i partigiani però: sia per la ricostruizone della dinamica degli eventi, dei rapporti di forza e delle responsabilità politiche e militari. Che infine dei problemi della memoria collettiva attorno a queste vicende, e più in generale attorno alla guerra civile del1943-45; come anche riguardo alla violenza inerziale seguita al 25 aprile 1945, con regolamenti di conti e nuovo sangue versato per motivi politici. Vicende queste ultime, che sono state studiate,per altro, innanzitutto dalla storiografia antifascista — a differenza di quanto sostenuto da una certa vulgata giornalistica e anche storiografica, oltre che politica. Le quali hanno spesso tentato di sostentere che il tema della violenza partigiana e post-25 aprile sarebbe stata censurata in ambito antifascista e persino dalla storiografia che in quel campo si riconosce.

​Il libro di Colombini ha molti meriti: qualità di scrittura e narrazione, chiarezza di analisi, completezza dei riferimenti storiografici (inclusa una eccellente bibliografia finale, articolata per temi su guerra civile e 1943-45, che si raccomanda anche come introduzione agli studi per insegnanti e studenti universitari). Il libro ha inoltre il pregio di un duplice passo: lasintetica ricostruzione storica degli eventi per grandi temi – suggerita dai luoghi comuni che vengono qui analizzati e decostruiti – e l’analisi della genesi e degli sviluppi della memoria pubblica della Resistenza, inclusa l’elaborazione del mito che la storia del 1943-45 in Italia sarebbe stata “scritta dai vincitori”. In realtà le voci che venivano da Salò, e talora ancora si riconoscevano nel fascismo, ebbero fin dagli anni Cinquanta e Sessanta largo spazio in particolare su rotocalchi di ampia tiraturacome “Gente”, dove apparve ad esempio nel 1960 il Pisanò “fieramente fascista” – nota Colombini – della serie in 18 puntate Il vero volto della Resistenza e la guerra civile italiana (come ricostruito a suo tempo da Cristina Baldassini, L’ombra di Mussolini. L’Italia moderata e la memoria del fascismo, 1945-1960, Rubbettino 2008, su cui Colombini si basa).

Prevalse così nel discorso e nell’immaginazione e consapevolezza – o inconsapevolezza o incoscienza – degli italiani una memoria prima afascista e presto anti-antifascista della Resistenza. E, quel che è peggio, del fascismo: cioè dell’intero Ventennio e delle responsabilità di massa degli italiani nel sostegno a Mussolini. Responsabilità rispetto a cui -nonostante i giorni della memoria in cui da vent’anni di fascismo italiano poco esplicitamente si parla (non ne parla, per cominciare, nemmeno la legge italiana istitutiva del 27 gennaio) – sembrano continuare a prevalere persistenti amnesie o rimozioni della natura sia ordinaria che criminale del fascismo e dei larghi sostegno e collaborazione che esso ebbe, anche nei suoi aspetti antidemocratici e violenti.

Vale la pena tornare riflettere su tutto questo anche grazie allibro di Chiara Colombini: almeno oggi 25 aprile, quando dovremmo ricordarci di coloro che l’antidemocrazia e la violenza hanno invece sconfitto con il proprio sacrificio e coraggio.  Restituendoci quella libertà cui in maggioranza avevamo – gli italiani avevano – fino a poco prima abdicato, o che avevamocontribuito attivamente a demolire: nel corso di vent’anni e infinenel baratro del 1943-45, con gradi di responsabilità e ruoli diversi

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